Momenti che si agganciano

COME È STATO 

È tanto, troppo che non scrivo nulla. Ho avuto alcune idee interessanti e qualche buono spunto ma non sono mai riuscito a dar loro alcun seguito. Vuoi il tempo, vuoi il metodo laborioso adottato per scrivere che mi impone ricerche dettagliate riguardo i soggetti considerati, nonché la preliminare consultazione di una marea di appunti sparsi, raccolti alla meglio qua e là, da sbobinare e poi cernere… insomma, per quanto i miei articoli siano destinati alla lettura di pochissimi affezionati e poi all’oblio mio e della rete, ci tengo a redarli nella miglior forma possibile ed è quindi qualcosa che mi richiede impegno e dedizione (merce rara alla mia età e in questo mio periodo storico).
A onor del vero, negli ultimi mesi mi son comunque tenuto in allenamento a livello mentale: ho letto molto, visto diverse serie TV e ascoltato parecchi dischi, continuando ad annotare parole, frasi, modi di dire (sia in italiano che in inglese), episodi e vicissitudini, sperando poi di canalizzarli da qualche parte, a un dato momento, per gioco o necessità (o entrambi, perché no). E l’ho fatto perché so quanto sia terapeutico per me scrivere, raccontare e raccontarmi, rimettere in circolo idee che altrimenti morirebbero nei miei taccuini e/o non entrerebbero a far parte né del mio lessico né del mio modo di ragionare. 

Libri per l'Estate.
Una pista, un libro semplice ma efficace ed uno della cinquina del Premio Strega.

Ultimamente ho sentito un’intervista al redivivo Liam Gallagher (to protect at all costs), il quale sostiene che per lui correre di prima mattina è indispensabile, e non lo è per chissà quale esigenza di fitness, stato di forma o preparazione fisica/atletica, ma perché gli permette di sistemare i pensieri, come se lui stesso fosse una scatola in cui tutto è in confusione e nella quale l’ordine si potesse ricomporre solamente dopo un running spensierato senza cuffie, cardio, Strava o altre puttanate simili. Per me non è così con la corsa (anche se l’adoro), avverto qualcosa di molto simile quando vado a Messa fra la settimana ma è una sensazione certamente analoga quando scrivo, forse.

Biblical

Inoltre, una cosa che mi dà noia (anche se, avendo io un pessimo carattere, è solo una delle tante, ne convengo) è accorgermi di come non rinnovare regolarmente il vocabolario finisca con l’uniformarci e il penalizzarci: parliamo tutti allo stesso modo, utilizzando termini identici senza capire quanto sia svilente e di come ci impoverisca intellettualmente.
Mi viene in mente lo slogan della Apple “Think Different”: cosa significa esattamente “pensare diversamente” quando tutti adottiamo le medesime convenzioni? Se adoperiamo tutti un Mac, seguiamo la moda del momento personalizzando solo il brand, se ascoltiamo i gruppi alternativi che nessuno ascolta ma che riempiono club o palazzetti, e se ricorriamo alle stesse parole ad effetto che qualsiasi effetto mai possano avere lo perdono nel preciso istante in cui a usarle è il 99% della popolazione mondiale?

Menga tant

Tuttavia può altresì  -e non è un colpa o un demerito- che nel setaccio non rimanga niente perché non si sia riusciti a scrollarlo e, cosa più grave, che la diminuzione della memoria comporti una perdita dell’identità. Succede, è fisiologico e ne va che molte mezze idee piccolo-rivoluzionare di parlato o scrittura non diventino intere, che si resti -nostro malgrado- uguali a noi stessi, sia nel porsi che nell'esporsi. È un peccato, ed è senza dubbio il percorso più veloce per regredire ed invecchiare.

Una digressione buffa ma che fa riflettere. 
Da quando mia figlia sa parlare, mi tengo nota di tutte le cose che dice, delle parole che storpia e soprattutto di come non abbia paura a farlo. Per lei il contrario di facile è “dif-facile” e se uno ci pensa è geniale per quanto sia apprezzabile il processo: la deduzione, l’intuizione, la logica che vi sono dietro meritano una particolare attenzione. Ha capito infatti che il prefisso “dif” indica negazione ma non sa né può sapere che questo aggettivo presenta un’irregolarità grammaticale che per noi è scontata ma può assolutamente non esserlo per una bambina di tre anni.
A referto vanno inserite anche:
  • “Per favore” diventa “per fIavore” perché è equivalente a “per pIacere”. 
  • Andare in bici è “biciclare”.
  • Qualcosa che scotta è “brucente”, che tra l’altro esiste veramente.
  • A qualsiasi ora sono "le cinque e mezze", del resto se cinque è più di uno è plurale, per cui deve essere declinato correttamente anche mezza.
  • La domanda prima di pranzo o cena è sempre "cosa c'è da oggi?", e quel "da" non riusciamo mica a toglierglielo.
  • Se per caso è autunno e il convento passa il minestronzo, allora è festa grande quando sbucano fuori i "rotolanti", ossia i crostini tondi da tocciarci dentro; in alternativa va benissimo anche un "paninoSteba", che sì, fa il verso al famoso locale in Gallucci a Modena ed è anche il pasto preferito dalle barbie di casa.
  • Le parole "Viva la libertà" dell'omonima canzone di Jovanotti sono diventate "Evviva Baby Shark".
  • Il "Sirone" è il maschio della Sirena e "la lampa" è il gender del lampo.
Ne avrei molte altre, probabilmente dovrei fare uno spin-off a questo articolo, sarebbe divertente e bello da conservare, per cui non escludo di cimentarmici in futuro, ma ora sono due le cose che voglio rilevare.
La prima è constatare come una persona lasciata libera di fare, priva di abitudini e stilemi, cerchi la propria strada in maniera originale ed autonoma; la seconda è rendersi nemmeno troppo sorprendentemente conto che, tra il serio e il faceto, anche io e donna Ilenia abbiamo cominciato ad impiegare queste parole.
Insomma, sembra di trovarsi in un piccolo mondo di freschezza e genuina originalità, come ascoltare un disco nuovo in cui le sette note di sempre suonano difformemente: se non per ringiovanire, di certo è un espediente utile per svecchiarsi, per rimettere carne di pensiero intorno all’osso del ragionamento.


File di immagine mentale, qualcosa che suona come i primi due album degli Strokes

L’esatto opposto, e chiudo il cerchio, del contesto di cui sopra e in cui viviamo tutti i giorni, nel quale ci si sente fighi a usare inglesismi ad minchiam (che, per carità, io amo la lingua del Pardo Shakespeare ma ogni tanto sembra sia diventata il nuovo latinorum) o ad abusare continuamente di aggettivi comuni o di perifrasi banali (su tutti “importante”: son diventati “importanti” anche le posizioni da cui si battono le punizioni in una partita di calcio, che Dante ci perdoni).


COM'È E COME DOVREBBE ESSERE

La mia intenzione è sempre stata quella di tornare a scrivere, prima o poi e compatibilmente con il tempo e gli impegni, proprio per tutti i motivi riportati sopra, ma mi è sempre mancata la giusta ispirazione.

A song by Setti

Da qualche parte ho sentito dire una cosa molto divertente ed allusiva, ossia che si possono passare vent’anni con la stessa donna senza che succeda nulla quando bastano venti minuti con un’altra perché succeda di tutto. Più o meno è andata allo stesso modo, nel senso che, come anticipavo al principio del papello, ho avuto qualche tresca narrativa che mi è durata anche abbastanza, per poi però finire in niente. Ad una certa, invece, ho avuto una folgorazione sulla mia personale via per Damasco, ho sentito che poteva funzionare e ho staccato il seriale per partecipare a party & afterparty della presente sbabbelata. 

Ritengo di fare un lavoro molto stressante mentalmente e la distanza tra casa e ufficio non aiuta; se a questo addizioniamo il mio nervosismo di base, il risultato è quello di un’ipertensione interiore che posso controllare per tutta la giornata ma che inesorabilmente esplode durante la notte, quando l’inconscio, riportando i nodi al pettine, disturba il mio sonno finanche a privarmelo per varie ore.
In maniera del tutto empirica e casuale ho scoperto un sistema per rilassare i nervi e regolare i cattivi pensieri, semplicemente sostituendoli con i ricordi di momenti che in un qualche modo ritrovo agganciati nelle profondità della mia mente e che mi tranquillizzano.
La cosa strana è che non sono obbligatoriamente memorie di episodi felici ma ciò che li accomuna è che mi trasmettono sicurezza, cancellano le paure e le convertono in una forza di fondo che spesso temo di aver smarrito, mi fanno credere di “potercela fare”. È come se possedessero un silver lining, quasi che la loro differenza fosse stata e stesse nell’infondermi la fiducia occorrente per affrontare situazioni intricate e da cui non sapevo e/o non saprei come uscire: è qualcosa che mi permette di rievocare ed individuare un elemento di ottimismo in un frangente difficile, o dif-facile, che dir si voglia. 

Quale migliore soluzione, allora, al mio bisogno di scrivere se non quella di mettere nero su bianco questi flashbax, innervandoli e dando loro cornice, contorno e contesto?
Di fatto queste reminiscenze altro non sono che le “frasi fatte” del mio dizionario emotivo, frammenti di significativa esistenza che per imprecisate ragioni arredano la mia memoria ma che io, troppo spesso, mi dimentico di salvaguardare. Per cui, al pari delle parole che non uso o dei racconti che non scrivo, questi ricordi potrebbero sbiadire e con essi la loro energia positiva. Descriverli, farlo con labor limae e parole ricercate, potrebbe fortificarli e accrescere il loro lenitivo potere notturno, e forse non solo quello.

A proposito di frasi fatte e risposte a dubbi sintattici imperscrutabili

Il criterio che voglio darmi è quella di riportare un numero limitato di eventi.
Inizialmente avevo pensato di resocontarne dieci ma dato il preambolo più lungo dell’edizione del sabato de La Repubblica, e conoscendo le mie ridotte capacità di sintesi, ho immaginato fosse meglio limitare a cinque il novero degli episodi agganciati nella mia mente o che la mia mente ha agganciato per me. Poi, a dirla tutta, dopo aver terminato la prima bozza e aver contato le pagine di Word, ho considerato più che accettabile una trilogia. Del resto nulla mi vieta di prevedere un Volume Due in un secondo momento ed un Terzo più avanti.
La sola regola -da segnalare anche se sottintesa- è che si tratta di momenti che ho vissuto da quando la Benedina è entrata nella vita mia e di donna Ilenia. E non solo perché l'ha resa completamente diversa, trasformandoci e arricchendoci sotto ogni punto di vista, ma anche perché ne ha  intensificato ogni attimo, spesso facendo sì che divenisse memorabile, e talvolta in modi del tutto inattesi.


EPISODIO 1 - FA LO STESSO

06/09/2016, Riccione.

Come anticipato, questi ricordi si riferiscono a episodi superficialmente trascurabili in cui non c’è nessun epico a miscelarsi con il quotidiano ma che serbano la dote di raccogliere ed incastrare dettagli aventi un preciso peso specifico, e questo episodio è forse il più rappresentativo fra tutti perché è il più vecchio ed è quello che fa da pietra di paragone rispetto agli altri.
Presente il film d’animazione Inside-Out?

Tanto per rimanere in tema, la Benny lo definirebbe un "filmaccio per bambini"

Ecco, abbiamo una data di inizio, un giorno uno, ed è questo: l’impalcatura su cui poggia la nuova isola, tra quelle già presenti della personalità, è stata allestita alle 14:10 di un martedì di fine estate sulla Riviera Romagnola: l’isola dei momenti agganciati, si potrebbe chiamare così, è stata creata allora.
La Benny era nata da un mese e mezzo e noi l’avevamo portata al mare già qualche settimana prima in Agosto, per la precisione a Cervia, una toccata e fuga di qualche giorno. Avevamo deciso di tornare a Gabicce a inizio Settembre, allungando il primo week end del mese fino al martedì immediatamente successivo.
Fatta eccezione per la data-zero cervese, ho sempre considerato la vacanza settembrina come “il primo mare” della mia bambina. Nella città del sale avevamo infatti l’appoggio degli zii di donna Ilenia e avevamo preso le misure, mentre oltre il canale che separa la Romagna dalle Marche eravamo andati solo noi tre, un po’ alla bersagliera e molto all’avventura, esattamente come due genitori alle prime armi in trasferta con la propria creatura: confidenti ma pienamente inesperti.
Andò tutto come doveva andare anche se, fondamentalmente, Gabicce non ci piacque. Complice fu il meteo abbastanza incerto che l’ultimo giorno ci indusse a battere in ritirata. Pensammo di andare a vedere qualcosa nell’entroterra ma poi ripiegammo su Riccione, dicendoci che, male che ci avesse detto, avremmo fatto un giro sul lungomare e poi saremmo stati a pranzo in un ristorante di nostra conoscenza.

Settembre per qualcuno raffigura un mese evocativo ma a me ha sempre fatto molto più che schifo e non gli ho mai concesso un secondo appello. Da quando poi presto mestiere nel settore ceramico, a maggior ragione lo ritengo un periodo di castigo, come se durante le ferie si fosse contratto un debito col karma lavorativo e lo si dovesse saldare il prima possibile senza stralci di alcun tipo.
Quel martedì non c’era anima viva a Riccione, era un paese di una tristezza invincibile, in cui sembrava che il tempo fosse sospeso, quasi non accettasse l’ufficialità dell’arrivo della stagione grigia. Poca gente nella nostra trattoria di riferimento, nessuno a passeggio in Viale Ceccarini e giusto una qualche anima in Piazzale Roma, dove hanno luogo gli eventi e gli spettacoli, proprio dinnanzi al mare che lì apre le sue porte alle fiumane di turisti.  
Una volta mangiato mi fermai a prendere un caffè in un bar che s’affacciava sullo slargo e, sebbene non ricordi esattamente cosa accadde, la ragazza dietro al banco fece qualcosa che mi prese bene.
- Lo sconto di dieci cents sul caffè?
- Nessuno scazzo di fronte ad una banconota da 50 euro ed un resto di 48,90, traducibile in quattro carte da dieci, una da cinque, una moneta da due, una da uno, una da cinquanta e due da venti: insomma, una roba per cui c’è gente che verrebbe ricoverata a Villa Igea?
- Un sorriso paziente nonostante l’orario?

Non so, non rammento con precisione, ma la forza degli episodi che racconto sta anche e proprio in questo, ossia in ciò che altre volte ho definito come “la memoria delle sensazioni”, il rivivere una buona percezione al di là della natura della realtà, tornare improvvisamente ad udire una colonna sonora di calma e di distensione, come se nella mente risuonasse l’eco delle chitarre melodiose degli Explosions in the Sky in una delle loro ballate più magnetiche. 

Ascolto consigliato

Ci rimasi bene perché questa ragazza aveva tutte le ragioni per mandarmi affabilmente (o anche no) a cagare; per lei infatti era la fine della stagione e forse anche la fine del turno, e le si parava davanti un neo-genitore potenzialmente pieno di menate, fuori luogo come un leghista in un museo e sulle nuvole feriali come se tutto gli fosse dovuto.
Fu gentilissima e quando penso a quella mini-vacanza lei è tra le prime tre cose che mi vengono in mente. Non saprei assolutamente dire che faccia avesse, se fosse alta bassa magra in carne bionda bruna, come fosse vestita e conosco il nome del bar e l’orario solo perché ho riesumato lo scontrino dal mio taccuino di quel periodo, ma ciò che conta è e fu il senso di pace che mi trasmise, l’idea che Settembre dovesse essere preso così, ossia polleg e via cantare. 

Non si vede benissimo, ma in rosso avevo riportato il nome del bar e sottolineato l'orario

Era sì l’inizio di un ciclo di lavoro pesante ma anche la fine di qualcos’altro di intenso, per cui il modo migliore d’affrontarlo era quello di assecondare questo mese di merda rallentando i giri del motore e  -come si direbbe in gergo sportivo- "addormentando le partite" della vita che avrei dovuto giocare corsaro sul suo campo neutro e sabbioso (tipo quello di Madonna dei Faeti, a Ubersetto, che dopo l'estate è una lastra di polvere e ghiaia).
Era esattamente ciò che non stavo facendo (ricordo che m’ero preso del lavoro con me perché ero terrorizzato dal rimanere indietro e trovare una montagna di sospesi) e ciò che temo tuttora, quando ritorno dalle ferie, ossia la paura di essere centrato dall’uragano delle cose che si sono accavallate mentre non c’ero.
In quel suo “Fa lo stesso”, perché se ha aperto bocca non può che aver detto così, c’era l’essenza di tutto quel frangente, e ciò che dovrei consigliarmi ogni volta che apro la casella di posta dopo essere stato in vacanza dovrebbero essere proprio queste tre parole. 
E un cordiale fanculo ad un altro Settembre.


EPISODIO 2 – LA SEGRETERIA MENTALE

11/06/2017, Valsamoggia

Un’altra caratteristica di questi momenti agganciati è che non subiscono cambi di prospettiva. In primis perché il POV è sempre e solo il mio, e per quanto nelle stories possano essere presenti altri soggetti, si tratta di attori non protagonisti, se non proprio di comparse vestite a festa. In secondo luogo, alla base di ognuna di queste vicissitudini è presente una sequenza meccanica di sketch, quasi ci sia stato un regista invisibile ad aver scritto i testi e che, notabene, mi abbia pure preso in simpatia.
Ne va quindi che non possono essere materialmente riprodotti in alcun’altra maniera se non pedissequamente rispetto a come si sono svolti all'epoca dei fatti: sembra scontato ma, come dico sempre, giocare facile non è facile (è dif-facile, goes without saying).
Mettiamo allora una mattina di tardissima primavera all’imbocco dell’Autostrada del Sole, ma non una qualsiasi, bensì quella seguente al matrimonio di Chicco a San Cesario, cerimonia in cui io ebbi (per la terza volta nella mia vita) la fortuna di essere testimone di nozze. Come già raccontato in un post precedente, dopo aver dormito a casa di Goppy insieme a Checco (non nello stesso giaciglio ma nelle stesse condizioni, di stato in luogo figurato e non, sì), ero partito all’alba in direzione di Cattolica, dove mi aspettavano donna Ilenia, la Benedina e mia madre. Quello di cui non ho mai dato notizia fu però il viaggio, che m’è sempre rimasto impresso nella mente nonostante fossi da per me, ci fosse un caldo infernale e avessi ancora addosso tutti i carboni della serata ribalda trascorsa e terminata solo poche ore prima. Per farla breve, un pellegrinaggio memorabile benché non ci fosse stata alcuna buona ragione per metterlo agli atti.

Valsamoggia è un comune sparso sotto il cui ombrello si son aggregati paesi che ruotano intorno ad un baricentro geografico di comodo, per cui è lecito dire che esista di nome ma non di fatto. Ad ogni buon conto un casello autostradale ce l’ha e quello lo rammento perfettamente, sperduto nella campagna bolognese, nel bel mezzo del niente coltivato a razze, rovi e sterpaglie. D’accordo che, come ha detto qualcuno, "dopo Settecani è già Romagna" ma quella è ancora Emila Paranoica e lo è con tutti i crismi del caso, è una terra senza perdono, ancorata a niente se non alle strade da cui è attraversata.

Fu un viaggio estenuante.
Avevo l’hangover di chi ha preso l’OKI sia per allontanare gli  strascichi notturni dei gin-tonic sia per evitare il mal di testa del giorno dopo: il problema è che ogni rimedio chimico contro l’alcol ha delle controindicazioni che costano, e il ketoprofene non aspetta altro se non di precipitare il paziente in uno stato di catalessi mentale che, nel mio caso, è sempre durato tra le quattro e le cinque ore.
In altre parole è come se quella mattina la mia testa avesse attivato una sorta di pilota automatico che rispondeva solo alle richieste contingenti, ma non si prendeva la briga di decidere altro che non fosse impugnare saldamente il volante di una Punto Diesel riconvertita in una safety car dei poveri, mantenere la distanza di sicurezza e indovinare lo svincolo preciso.

Do you hear me?

- Intestino chiama testa, rispondete!
- Bzzz…
- Intestino chiama testa, mayday!
- Bzzz…
- Vita chiama testa, questa è un’emergenza, rispondete!
-[Parte messaggio preregistrato con tono metallico standard] Risponde la segreteria mentale, per le prossime quattro ore sarò il vostro capitano di bordo, si prega di allacciare le cinture e di non disturbare se non per urgenze fisiologiche come bere pisciare cagare. 
- Ok. E per mangiare, no?
- Bzzz…
- Ok, allora fermiamoci al primo autogrill che c’è chi festeggerà, over.
- Copy that, over and out. 


Fu così che mi fermai all’Area di Servizio di Sillaro Ovest a Castel San Pietro Terme.
Decisi di dar retta alla segreteria mentale e non presi da mangiare (che invece male non avrebbe fatto, il classico panozzo strinato fuori e crudo dentro sarebbe stato un toccasana) ma ordinai un caffè per svegliarmi e un Estathe perché -per non so quale mistero della fede- mi ha sempre ripristinato lo stomaco, anche dopo i venerdì sera più ruggenti. Tutt’oggi mi chiedo che cosa mi avesse detto il cervello, poi ricordo: assolutamente niente, era spento e il pilota automatico si era limitato a registrare la richiesta come lecita esigenza di liquidi, lasciando che l’analisi chimico-fisica dell’accoppiata caffeina-teina assunta in uno stato di ebbrezza non ancora debellato passasse in cavalleria.

Arrivare a Cattolica divenne una missione pastorale.

Disco fondamentale in generale nella vita ma anche nello specifico delle due ore autostradali.
Il mio personale poema omerico di quella cavalleresca domenica di inizio Giugno: quello in sella al nero destriero sono io all'ingresso del casello di Valsamoggia.


Giunto sul posto con clamoroso ritardo rispetto alla tabella di marcia indicata da Google MAX (che io lo avevo già ipotizzato due anni fa ma continuo a dirlo ora: questa applicazione merdosa becca un intervallo temporale ogni cinque) pensai di girovagare random per la cittadina, convinto che il residence delle mie donne si materializzasse all’improvviso lungo la mia via come se fosse la chiesa al centro del villaggio e, giusto per inanellare a quelle già prese un’altra decisione derubricabile, stabilii che fermarsi in un parcheggio per fumare una sigaretta fosse cosa buona giusta doverosa e salutare.
Superfluo dire che il tabacco peggiorò oltremodo il mio post-sbronza domenicale.
Squillò il telefono e all’altro capo del filo era donna Ilenia, contenta di sentirmi solo per sapermi ancora vivo e non perché parlassi ancora (ammesso che “parlare” sia e fosse il verbo più appropriato, diciamo “sblaterare”?).
Condotto o, per meglio dire, tradotto all’alloggio, il receptionist romagnolo mi squadrò con lo sguardo di chi di facce crepate ne aveva viste tante e, ancor prima di salutarmi e farmi fare il check-in, mi offrì un caffè che io naturalmente accettai, compromettendo definitivamente la salute dei pochi batteri intestinali ancora in attività e respingendo con perdite l’idea di recuperare entro mezzogiorno una parvenza di benessere psico-fisico.
Niente da aggiungere, Vostro Onore, il pilota automatico ingaggiato dalla segreteria mentale aveva fatto il suo, dopodiché s’era dileguato nel più assoluto silenzio radio e non ne aveva più voluto saperne mezza, e di quella mattina e della mia vita nel suo senso più lato.

Qualche minuto dopo mi trovai in spiaggia, occhiale da sole vistosamente appiccicato alla faccia e un senso di inadeguatezza alla vita che manco la piattaforma Rosseau rispetto alla realtà: mi sembrava tutto incredibilmente rumoroso e luminoso, era come se dovessi cercare di abbassare il volume e ridurre il bright ma non avessi nessun telecomando. Ricordo mia mamma che iniziò a parlare neanche fosse obbligata a declamare tutto quello che le passava per la testa entro una scadenza di dieci secondi: la tentazione di zittirla brutalmente con urla da spogliatoio degne del miglior Billy Costacurta d'annata era enorme, poi però mi dedicai alla mia bimba e fui rapito da lei per tutto il resto della mattina.
Non ne sono certo ma penso sia stato allora che ci facemmo una foto in riva al mare, io lei e la mammaIle; divenne un’immagine segnatempo, nel senso che ogni Giugno ne facciamo una simile insieme e notiamo affinità e divergenze intercorse fra anno ed anno.

Nonostante la presenza di molte amiche di donna Ilenia, tutte pezzi di figliole senza senso, penso d’essere tornato a comunicare con i miei simili e ad avere con essi rapporti civili verso ora di pranzo, quando m’accorsi d’aver fame: sentendomi in colpa per aver mentalmente sfanculato mia madre a più riprese, le proposi di andare insieme a pigliare da mangiare d’asporto ed ingannare l’attesa con un aperitivo rinforzato.
La cosa più intelligente che avrei dovuto fare sarebbe stata quella di depurarmi con due litri di San Pellegrino e poi azzardare, al massimo (e per dirla col Bret) un "risotto baggiovara accompagnato da acqua piovana". Invece presi uno Spritz lungo quanto il secondo tempo di una partita del Chievo già salvo e, dopo un summit tra me e me, stabilii che 75cl di vinello bianco take-away erano necessari per gustarsi i piatti di pesce appena ordinati.
Mangiai che mi si chiudevano gli occhi e crollai a letto dieci minuti dopo aver finito di pranzare, mentre la Benny, mattacioccata come già dava l'idea di essere, sprizzava energia da tutti i pori e ballava Despacito senza sosta.

Per non dimenticare anche se forse dovremmo farlo tutti

Dormire di pomeriggio: ora lo faccio sempre nei week-end, allora era la prima volta. Capii d’essere vecchio, che i metaforici sorpassi a destra compiuti fino il giorno prima dovevano cominciare a costituire un’eccezione, che la fase go fuckin' mental della mia esistenza si stava chiudendo.
Eppure questo è uno dei ricordi che più mi sollevano il morale, come se simboleggiasse un nesso tra diverse mie vite. C’era mia mamma, c’erano stati i miei compagni di Liceo, c’era donna Ilenia e c’era -più forte di ogni cosa- la Benedina: tutto trovava un ordine sua sponte.

Purtroppo molti scontrini sono stati usurati dal tempo e non si leggono più bene ma quel "colazione impossibile" dice tutto

Quando le paure intercettano pensieri notturni che mi vogliono manchevole o non all’altezza delle circostanze che mi attendono, ripenso a questa due giorni full gas, in cui non programmai bene nulla ma tutto mi disse bene. Per inciso, se il sabato non arrivai fuori orario al matrimonio di Chicco fu solo perché ad una certa mi accorsi di aver sbagliato strada: il cartello indicante Bologna mi fece pensare che Villa Boschetti potesse essere scomparsa dal radar e io stessi bellamente cannando una delle più importanti celebrazioni della mia vita.
Scherzosamente si dice che non v'è alcuna buona organizzazione che non possa essere sostituita da una grande botta di culo ma, pur somigliandoci molto, non è questo il caso. I cugini d'Oltralpe (e forse anche il buon Bad) pensano che l'hasard fait bien les choses che, per quanto sia un paradosso intrigante, non verifica l'equazione. Il punto è che a volte non si può far altro che muoversi con la naturalezza che ci è propria, e se poi si ha pure la fortuna di essere con persone care, tanto meglio, difficilmente (o dif-facilmente, perché no?) si sbaglierà manovra.


EPISODIO 3 - IL PARCO GIOCHI 

04/08/2018, Sant’Antonio (Pavullo n/F).

Non posso certo dire d’essere persona di bosco e di riviera, anzi delle due l’una che preferisco è certamente la seconda. E non è quindi un caso che due terzi degli episodi descritti (e una buona fetta degli altri) trovino la loro geolocalizzazione in Romagna; tuttavia ve n’è uno cui rimango estremamente legato, le cui coordinate portano dritte al parco giochi del paesino in cui vivo, una tarda sera di mezz’estate del 2018.
In quel periodo ero molto preoccupato perché m’aspettava una decina di giorni senza il mio collega d’ufficio più alto in grado, tradotto: casini del ’32 senza soluzione di continuità dalle 8:00 alle 18:00 più recupero. Differentemente da tutte le volte che sarebbero seguite, quella era la prima di tante e ancora non ero in grado di gestire la pressione del rimanere da solo al comando di una piccola grande situa. Pensavo che tutto sarebbe andato male, che avrei fatto poco del mio lavoro e male quello altrui, che sarei stato come quel pompiere che non solo arriva tardi all’incendio ma non arriva nemmeno a quello giusto.

Billy Wright, leggendario centrocampista dei Wolves cui è dovuta l'ultima citazione.
Se non erro, disse queste parole riguardo a Pele, dopo aver affrontato il Brasile con l'Inghilterra, di cui era capitano, ed esserne rimasto travolto.


Era sabato ed essendoci stato caldo tutto il giorno, decisi di portare la Benedina al parco giochi di San Antonio Spurs. I miei ci avevano invitato alla Muntobez Fest ma, per quanto in passato fossi stato fan dei sagre-tour, avevo depennato gli impegni di questo genere dall’agenda perché mi venivano dei mal di testa preventivi solo a pensare al parcheggio, alla fila e all’attesa della polenta. Avevo dunque declinato l’invito e avevo detto loro di passare dal parchetto, così avrebbero salutato anche la nipotina.
Ero teso come una corda di violino, avrei voluto che qualcuno mi somministrasse pillole di saggezza così da sfidare la paura ma ciò che temevo era di perdere la trebisonda al primo repentino cambio di vento e dover accettare supposte di esperienza: m'aspettavo che ogni possibile rimedio si sarebbe rivelato peggiore del male.
Era molto buio e non c’era nessuno a parte noi, rimanemmo al parco per un’ora almeno. Sullo sfondo le luci della strada e delle ceramiche, nemmeno il verso dei grilli: un insolito silenzio e un’atmosfera ovattata. Assorto nei miei pensieri e divorato dall’ansia, osservavo la bimba che scendeva da e saltava su ogni gioco, una vitalità tale che io mi stancavo solo a guardarla. Mi sforzavo di concentrarmi sul momento senza però riuscirci. Capivo che avrei dovuto giocare una partita alla volta ma ero come bloccato, schiavo dell’immediato futuro ed escluso dal controllo del mio presente.

C'è caso che abbia pubblicato questa canzone altre volte sulle colonne del mio blog ma mi è capitato di riascoltarla recentemente, proprio mentre scrivevo questo articolo e, sia per alcuni versi sia per certe suggestioni musicali, ho ritenuto opportuno inserirla da qualche parte.

Arrivarono i miei e la Benedina, sorpresa dalla visita inaspettata, scoppiò di felicità raddoppiando la carica e la velocità di gioco. Nondimeno i nonni, sebbene stessero pienamente ricambiando il reciproco sentimento di gioia, si trattennero poco ed essendosi fatto tardi dovemmo rincasare anche noi, tra il disappunto e la sceneggiata melodrammatica della bimba che non accettava che la festa improvvisata si concludesse tutto ad un tratto così come era cominciata.

La confusione mentale genera paura ma uno sconforto positivo “fa colore”.
Non è la considerazione ermetica di un filosofo ubriaco di fine Ottocento, è qualcosa che io credo davvero e che, a pensarci bene, non è molto differente rispetto all’idea di Liam Gallagher sulla corsa, menzionata mille righe sopra.

S'era detto otto e mezza puntuali al Var

Lì per lì non scrissi tanto di quella serata sui miei taccuini ma un appunto, seppur di poche righe e nemmeno in bello stile lo presi, e feci strabene. Ho infatti riletto quella nota non so quante volte per riagganciare quegli istanti e farne rivivere un mantra nella mia testa: ho avuto bisogno di rivedere la scena al VAR e s'è sempre conclusa con un silent check. Da allora ho dovuto fronteggiare molti casi simili, sia per urgenza che per contingenza, e ho sempre avuto bisogno di capire come fossi stato la prima volta, cosa mi fosse passato per la testa, se avessi vinto il pessimismo della ragione con l’ottimismo della volontà o quali fossero stati gli ingredienti della ricetta perché il cuore restasse caldo e la mente fredda.
Non vi ho mai trovato una risposta precisa ma ciò che resiste all'incedere del tempo è una sensazione di rassicurazione, non solo la consapevolezza che la scarsa lucidità prima degli incontri di cartello è sempre stata una mia prerogativa ma anche che senza di essa sarebbe andato tutto a carte quarantotto, non avrei avuto niente da raccontare e non avrei avuto alcun quadro da incorniciare, no pattern to fit. La bassa tensione non m’avrebbe permesso di stare sul pezzo e la supponenza avrebbe danneggiato la concentrazione; ognuno è fatto a modo suo, conoscere i propri limiti è il primo passo per tramutare la debolezza in forza.
E poi, ultimo ma non ultimo, quando rileggo quell’appunto m’accorgo di un altro importante dettaglio, ossia di come in troppe circostanze, sia al tempo presente che al passato remoto sia e sia stato occupato a guidare, accorgendomi solo in un secondo momento di quanto sarebbe stato piacevole godersi anche un po’ la strada, favoleggiare del percorso, soffermarsi sul paesaggio tutto intorno.

Non so, io sono tradizionalista anche nelle piccole cose e quest’anno volevo in un qualche modo ripetere questo momento, replicandone le condizioni di esistenza pur percependo che sarebbe stato qualcosa di ugualmente intenso solo se fosse stato bello in maniera diversa, e così è accaduto. Un giorno ne scriverò perché so già ora che ne avrò necessità ma adesso la sintassi deve ancora decantare: ciò che importa è che sia riuscito a viverlo, pur senza forzare la mano, e la Benedina ne abbia costituito una parte molto più che attiva.


TITOLI DI CODA

Direi d’essere arrivato alla fine o comunque di dover finire perché la misura di questo ennesimo big read è colma.
Non mi rendo mai conto di quanto sia prolisso, il fatto è che spesso mi perdo tra le pieghe della narrazione senza accorgermi che il numero delle parole cresce e non s’arresta, dovrei asciugare anziché rimpinguare ma tanto, come anticipato all’inizio, questi articoli sono destinati a me e ai fans che mi leggono no matter what, per cui a chi importa quanto siano lunghi?
Il discorso è un altro, cioè che questo resoconto avrebbe dovuto funzionare proprio così: come i momenti di cui sopra mi aiutano a smarrire i cattivi pensieri che nottetempo intercettano i miei sogni migliori, allo stesso modo scrivere mi proietta in dimensioni parallele di assenza di vento, in cui tutto pare più gestibile e sembra acquisire un senso in più.

C’è chi ha detto che siamo la somma delle persone che incontriamo. Probabilmente siamo anche la collezione dei momenti che riecheggiano nella memoria perché, come dice una mia amica molto saggia, viviamo in prosa ma ricordiamo in poesia. Ad ogni buon conto in una zona che definire grigia significa sminuirla restano i momenti che si sono agganciati senza bisogno di alcuna condivisione sui social, e sono proprio quelli che fanno la differenza, perché la differenza sta nei dettagli. Sfumature argentee che non sono né marcatamente belle né in alcun modo brutte ma che, pur essendoci state fin dall’inizio, s’evidenziano solamente quando vi si presta attenzione, solo quando s'arriva a coglierne il fascino ed il senso di infinito equilibrio che nascondono così bene.
È come se avessero avuto bisogno di un innesco tra luce ed ombra per mostrarsi e solo dopo bilanciare armoniosamente il quotidiano, anche quello più inquieto e agitato.


Mi servivano davvero le parole giuste, tra le tante raccolte e non usate, perché fossi in grado di raccontare quei momenti che s'agganciano automaticamente nella mia mente ma di cui spetta a me maneggiarne con cura potere e incanto, fino a renderli parte inestricabile della mia esistenza, specie nei giorni e nelle notti più difficili. Pardon, dif-facili.

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