Le ns stupende parole

...o anche due volte 18.

So di avere pochissimo tempo per scrivere e pubblicare questo articolo, è una gara contro il tempo, contro le ripetizioni di parole e contro eventuali perdite di senso logico. Nel giro di mezzora si sveglierà la bimba, col mantra "titto... peppa!" e l'attenzione mia e di donna Ilenia sarà rapita dalla sua cura, mi piacerebbe andare a fare una corsetta, si dovrà fare un po' di spesa e a mezzogiorno arriveranno i regaz a pranzo per festeggiare il festeggiabile. 
Sono le 7.26 e vorrei finire entro e non oltre le 8.15 massimo. 
Avrei tantissimo da dire e ricordare ma purtroppo non è questo il momento: le ultime vacanze, i libri letti, le serie viste, tutte cose di cui ho iniziato a sbobinare i miei appunti mentali ma senza arrivare mai a un dunque. 
Ad ogni buon conto in quest'occasione voglio dedicarmi ad elencare i titoli dell'ultima compilazione, realizzata a mo' di presente per gli amici invitati al banchetto odierno, di oggi 04/11/2017, giorno in cui festeggio per la seconda volta 18 anni. Sento che ne vale la pena, mi spiacerebbe non raccontare nulla dei pezzi da cui è composta.


La copertina è sempre importante e, pur avendo chiesto a Fonzo di passarmi qualche scatto dei suoi (dato che già in passato ne avevo utilizzato uno con successo), ho deciso di usare una mia fotografia, fatta a Lubiana, in Slovenia, la scorsa Estate. Non so, mi piaceva.
Altrettanto significante è il titolo della raccolta:"Le ns stupende parole". Si tratta di uno stralcio de "Le cose più rare", strepitosa canzone del primo album di Cosmo.
Pronti? Via! Che questa potrebbe davvero essere la prima volta nella vita in cui riuscirò ad essere conciso.


1) Wolf Alice - Matilda (cover Alt J)
Dei WA ho già parlato a tutti diffusamente, mi servirebbe un vocal di Whatsapp della durata di almeno un quarto d'ora per poter più o meno avvicinarmi all'enciclopedia omnia di pensieri che ho riguardo questa band. Shazammata "Blush" in uno Sturbucks di Manchester (che già così sembra il preludio a una meravigliosa storia d'amore) ho preso a seguirli con grande trasporto, fino a scoprire che il finale di Trainspotting 2 viaggia sulle note di "Silk" (che è un pezzo loro), Oltremanica sono la Next Big Thing in corso, ogni tappa è sold out, ed io andrò a vederli a Milano a Gennaio. 
La cover di cui sopra l'ho sentita quasi per caso ma è stata colonna imprescindibile della mia Estate. Ne ho scritto in un posto stranissimo, ossia il Google + di mia mamma (sarebbe fantastico indagare più approfonditamente ma non c'è tempo). 

Pubblico il pezzo (cosa che non sarà ripetuta per ogni canzone ma in alcuni casi specifici, tipo questo, sì) e sotto riporto quanto vergato allora:


Alcuni "notabene" perché mi sento parte in causa.
I. I violini sono tetri all'inizio, molto sommessi, suonano note basse e minori, quindi molto più pesanti. Quando lei non canta, gli archi aprono spaziando tra accordi molto più alti e allegri: 'na meraviglia.
II. Lei, cantante punkettona (si noti la classica vestita inglese da "menefregauncazzotantosonofigacomunque") è, sulle prime, molto incerta. Il contesto non è il suo, molto intimista l'atmosfera,  il format è quello della BBC (e i sudditi di Sua Maestà a certe cose fanno caso), insomma, non è un club, non è un festival in cui sarebbe a suo agio con gonna, canotta e chitarra. Quando prende coraggio si capisce però perché i bravi recensori di Albione abbiano un debole per la ragazza.
III. Lo strumento suonato meglio è la batteria. Soffocata dal pannetto sul rullante, così da star "dentro", conferisce un ritmo "trip pop", mantenendo così la natura originaria della canzone degli Alt J (che oltretutto ho anche visto dal vivo a Villafranca e non me lo ricordavo).



2) Cosmo - Le cose più rare
Per me poesia allo stato più puro e brado.
Chi è che se n'è andato?
Chi è che si piange?
Poco importa.

Mi rimane in testa quando canta "le nostre stupende parole" perché quante volte ci troviamo a compiacerci di noi stessi, delle nostre vicendevoli pezze, magari quelle nate dopo un aperitivo killer, durante una serata full gas o nel corso di un viaggio all'estero.
Sono parole stupende perché sono nostre o sono nostre perché sono stupende? Magari non le "più" stupende fra tutte ma stupende "qb" perché le riconosciamo come di un livello superiore, l'unico che conferiremmo a noi stessi.
Am I making myself clear? Don't mind.




Il fratello prodigo è tornato a Manchester e ha provato a fare un recap di puro Rock'n'Roll inglese. Come faccio a non tenerlo in considerazione, inserirlo di diritto ed in virtù di una sorta di Ius Soli musicale?


Di questa canzone ho largamente sbabbelato in altra sede, più precisamente nel mio ultimo articolo, soffermandomi sui retroscena, sul background amicale da cui è partito e in cui sta prosperando. Imprescindibile nella mia compilazione dell'anno. 


Non ho molto da aggiungere se non che, trattandosi di un best of personale, molti dei video che sarebbe bello pubblicare (e non solo linkare) sono già stati postati precedentemente. Peccato,.


05) Lali Puna - Rest Your Head Rauschhaus Gute Nacht Edit)

Il video è, in realtà, un fermo immagine ma è bello, fa colore.

Canzone passata in sordina ma di assoluto valore nel mio anno musicale.
Ideale per risvegli tranquilli al sabato mattina dopo una tempestosa settimana lavorativa, incantevole sottofondo alla scrittura, perfetta come colonna sonora per gite fuori porta. Non conoscevo Lali Puna: Mea Culpa Mea Culpa Mea Maxima Culpa.


Presente quelle canzoni che ti entrano dentro? 
Che uno ascolta all'esaurimento anche se un vero limite non viene mai raggiunto? 
Non riesco ad individuare ciò che più mi colpisce di questo brano che avrò, non scherzo, ascoltato migliaia di volte. Forse il grezzume della chitarra, la voce soffocata, il basso e la batteria che, dietro le quinte, disegnano un perimetro quasi indefinito ma essenziale. O anche la chimica sviluppata da questi quattro elementi che, presi separatamente, non funzionerebbero altrettanto bene. 


Per la serie che, più semplicemente, a volte si cagano viole senza nemmeno sapere come, senza averne avuto una reale intenzione. E sta comunque di fatto che nella mia Every Time Best Selection questa ci finisce di corsa.


07) The National - Day I Die
A poche band è concesso di essere sempre e comunque belle come ai National.



Welcome back, lads, mi siete mancati.
Non ho nemmeno capito se l'album nuovo è un'OST o meno, ma fa li stess.



09) Fast Animals & Slow Kids - Annabelle
Ricordo di averli visti dal vivo a Bologna in un periodo molto strano della mia vita (per dirla come il narratore di Fight Club) e, da lì, ho preso ad ascoltarli con costanza fino a tornare ad un loro concerto alla fine dell'Estate, alla Festa dell'Unità di Reggio Emilia. Ubriachi da far schifo, in un Campovolo gelido e a fine tour... eppure trasmettono un'energia e una carica fuori dal comune, piuttosto rara da trovare, ultimamente.




Come già scritto in una qualche riga sopra, il problema di raccolte di questo tipo è il rischio di ripetizione. Questa canzone è finita sicuramente in una qualche altra compilazione, molto probabilmente quella collazionata per l'amico Aberto Lioy e, di sicuro, era nel Top 2016 di SB9. Vero tutto ma vero anche che, voltando indietro il mio sguardo a questo 2017 orma agli sgoccioli, questo pezzo è finito in un botto di chiavette da viaggio, in un sacco di cd che hanno alleggerito le mie trasferte e i miei spostamenti. Farla fuori o trascurarla non sarebbe né giusto né corretto.



Tra le tante cose rimaste in sospeso e con cui mi trovo sempre a confrontarmi, c'è un carteggio mail tra me e il mio buon amico torinese d'istanza in Oregon. E non solo quello, perché la nostra insolita amicizia, nonché il ns rendev-vous meriterebbe e avrebbe meritato qualche riga sull'Indie, cosa che, in realtà mi son sempre promesso di fare senza però mai portarla a termine, e che rimane dunque tra i miei principali crucci. 
Tra le canzoni segnalatemi, menziono questa, che tra l'altro mi ricorda Spark.


Con calma faccio tutto.




Da altre parti ho ampiamente e nuovamente ringraziato Checco per averci non solo edotto riguardo i migliori pezzi elettronici che il mondo ha conosciuto tra la fine del ventesimo secolo e gli anni zero di quello nuovo, ma anche per aver messo agli atti (ossia sulle compile PERLE AI PORCI, ancora presenti sui vecchi archivi della rete) canzoni come questa. 


13) Thegiornalisti - Riccione


Non ho scuse. 
A mia parziale discolpa vi rimando al minuto 1 e al secondo 44, easy peasy. È stato bello avere avuto 18 anni una volta. Anche compierli una seconda, per carità. Ma, davvero, 1' e 44'', c'è un notevole disclaimer.
Rimango comunque a disposizione per informazioni e chiarimenti.


14) The Zen Circus - Ilenia


La cosa bella dell'MTV di una volta era che si si poteva innamorare di pezzi che forse, diversamente, non avremmo mai ascoltato perché apparentemente lontano dai nostri gusti musicali. Ecco (o come prova a dire mia figlia:"æccccuuuu!"con una dieresi perfetta, tra l'altro), gli Zen Circus non sono assolutamente tra le mie band favorite e non mi viene proprio da ascoltarli. Eppure questo video si fa guardare, è magnetico e, dopo un po', ci si affeziona anche alla canzone.




C'è un amico che non ho ancora citato in questo articolo, e non esiste post in cui non metta, di riffa o di raffa, una qualche sua parola. Santu è solito dire, alle volte:"C'è ancora chi ha la classe per dire agli altri come si fa". Credo si adatti perfettamente ai War On Drugs.


16) Noel Gallagher's High Flying Birds - Holy Mountain


Hi Noel, listening you playing again is like meeting an old friend and chatting with him. Same chords, same words but it doesn't matter, you're always welcome: a great guitar and an amazing jacket will save your music forever, Chief!
By the way: a double as a second guitarist, a big boobies girl on the piano and the City Standard near the Hiwatt amplis are n.1 ideas and that's why I still like you so much and I always will. The song is.. . well, it would be fine if you were a fuckin band of fuckin ABBA fans, but to me it's ok, d'you know what I mean? Never mind, next time, you can do anything you want 'cos you're my fav one.




Mi congedo perché s'è fatta una certa e la bimba vuole vedere Veo Veo per almeno 25 minuti.

Enjoy.

Cose brense

Chi mi segue sempre (anche se perdo sempre) sa che per me il titolo di un post è una questione di capitale importanza, quasi maggiore di quello che potrà essere l’articolo in sé o la qualità degli argomenti toccati.
Un po’ per non dimenticarli e un po’ per spiegare la scelta di questo, ossia il terzo titolo di tre, vale la pena soffermarsi su quelli scartati, cioè:”Una settimana brensa” e “Un tempo brenso”. Il primo dei due era stato preso in considerazione perché ciò di cui andrò a parlare si riferisce ai fatti riconducibili ad una sola settimana, mentre il secondo era stato valutato perché evitava di identificare un preciso arco temporale, lasciando al lettore un’idea più vaga, più dilatata ma comunque evocativa. Minimo comune denominatore tra tutti era ed è però l’aggettivo, cioè “brenso”, parola tutta emiliana, ahimè forse più bolognese che modenese, la cui etimologia credo derivi dall’azzeccata contrazione di "breve" ed "intenso", qualcosa che indica un vissuto ricco e pieno di significati raccolti in un fazzoletto di momenti.
Alla fine però ho preferito puntare su un titolo più semplice, senza articoli e senza specifiche, una roba che fa il verso a “Stranger Things”, lascia nell’indeterminatezza più assoluta e contiene l’unico termine imprescindibile di tutta la faccenda:”Brenso”,appunto.

Valigie intelligenti


Preludio - Celebrare l’Estate

Sono cresciuto nella tipica famiglia emiliana che, tra gli anni ’60 e i ’90, aspettava l’Estate per scappare due settimane in Romagna.
Sono andato coi miei in Riviera fin verso i quindici anni, non di più: dopo scelsi, e mai scelta fu più azzardata, il gentil sesso.
Quand’ero poco più di un lattante era d’obbligo Riccione, una volta ricordo di una fuga a Senigallia e, infine, ho memoria di almeno cinque anni passati a Rivazzura, una frazioncina di Rimini.  
Come da brava famiglia Brambilla in vacanza, rispettavano ogni parte del copione: gli orari della colazione, la scelta del menu giornaliero prima di andare in spiaggia, l’aperitivo nella sala grande dell’albergo, il pranzo delle 12.30, l’aperitivo nella terrazza illuminata a festa, la cena alle 19.00, la partita a carte nei tavoli in cortile, la passeggiata sul lungomare e/o tra i corsi del paese.
Era un ineccepibile rituale dal quale sembrava quasi proibito discostarsi.
Tiriamo fiato.

Intorno ai tredici/quattordici anni cominciai a sentirmi abbastanza chiuso da questo schema ripetitivo e capitava che finissi di mangiare velocissimamente per poi smarrirmi negli spazi incustoditi dell’albergo. Salivo e scendevo ogni piano, cercavo le differenze tra l’uno e l’altro, entravo nelle stanze lasciate aperte, dentro gli sgabuzzini, snasuplavo nelle lavanderie, mi spingevo nei seminterrati facendo finta di aver sbagliato a premere il pulsante dell’ascensore, passeggiavo sui balconi vuoti, e leggevo i depliant turistici affastellati nei raccoglitori della hall. 
Tiriamo fiato un'altra volta.

Una sera sono riuscito ad accedere in una piccola saletta che trovavo sempre serrata. Vedendo la porta socchiusa non avevo resistito e avevo scoperto trattarsi del camerino dei camerieri, che erano quasi tutti studenti mandati dalle rispettive scuole alberghiere a lavorare lì durante la stagione estiva. Appoggiate sulle sedie le borse delle ragazze, buttati per terra gli zaini e i caschi dei ragazzi; tutti, sia uomini che donne, poco più grandi di me quanto bastava perché tra la loro vita e la mia fossero già stati scavati vari abissi di esistenza.
C’era un gran confusione, quella creata da chi è arrivato in ritardo al lavoro e non ha avuto tempo di fare ordine tra le proprie cose, mollandole alla va là che va bene e gettando tutto alla rinfusa per terra. Da una delle borse sbucava una fotografia, una specie di selfie ante-litteram, in cui erano ritratti alcuni di quei camerieri: se l’erano auto-scattata (chissà come, poi?) sulla terrazza dell’albergo, ridevano e facevano facce buffe mentre fuori stava calando la sera. 

Le foto di una volta avevano un’insolita particolarità, ovvero su un piccolo triangolino nel vertice basso di destra era riportato l’anno di stampa. Direi fosse il 1995. Dietro, scritto a penna, “21 Giugno, Hotel Nelson, Rivazzurra”.
Non so perché ma questa scena di me e del mio incanto davanti a quella foto, mi è sempre rimasta in testa, è la prima cosa cui penso ogni volta che mi fermo in un hotel della Riviera. 
Era un’immagine bellissima, aveva veramente tutti i più nobili requisiti del selfie: la giovane e raggiante compagnia, i sorrisi e gli abbracci, lo sguardo d’intesa di una possibile coppia del gruppo, il momento rubato alla più bella delle ragazze che andava di fretta e doveva ancora prepararsi per l’appuntamento delle dieci. Soprattutto, però, la non trascurabile aggiunta di non risultare superficiale o artefatta come alcune fotografie pubblicate oggigiorno su facebook.
Quel momento riusciva a trasmettere un fortissimo senso di felicità, pieno di purezza, e, sebbene non riesca davvero a trovare un termine migliore per esprimermi, spero di aver reso l’idea perché è una vita e mezzo che voglio metterlo nero su bianco: comunicava qualcosa anche a me che di quelle ragazze e di quei ragazzi non sapevo niente, e di cui a malapena associavo il volto ad un nome. Oggi si direbbe:”Thank you for sharing” ma in quel tempo non solo non aveva senso un ringraziamento del genere ma chi aveva scattato la fotografia nemmeno pensava che un bamboz ci si imbattesse in un'occasione X di una serata X e ne mantenesse vivida la memoria.
Quel che però più mi colpiva era la luce dell’immagine, un lunghissimo chiaroscuro azzurro-tenebra che delicatamente sfumava in ambra, quello tipico del far-della-sera estivo, che sembra non finire mai e che fa completamente dimenticare quanto tempo sia passato dal buio dell’ultimo inverno e quanto manchi prima del prossimo. 
Potevano essere le dieci meno venti e ci si vedeva ancora: una sorta di piccola aurora boreale al contrario.

Celebrare l’Estate, ecco, quella fotografia era un modo stupendo per celebrare l’Estate. Niente canzoni o rime facili, nessun tormentone alla radio e nessuna moda del cazzo; per me l’Estate era ed è proprio questo: un’immagine da tutti i giorni ma resa speciale perché immortalata in uno diverso dagli altri, forse in quello più bello di tutti, il turning point dell’anno, che segna un prima e un dopo. Un’immagine brensa, ricolma di vita seppur sigillata in un istante, solo in apparenza insignificante.

Su indicazione del Bret, un pezzo bomba

Sebbene siano passati moltissimi anni da quella sera e la Riviera sia diventata per me molte altre cose, il ricordo della fotografia dei camerieri mi ha sempre accompagnato con il suo valore più grande, quello dei giorni che non finiscono, che contengono spazio e tempo per vivere quanto più possibile, immagazzinare ricordi e salvare frammenti di spensieratezza cui appigliarsi quando tutto fuori sembra dire male o remarci contro. Per ogni Estate che ho trascorso da allora, quell’attimo di contentezza era l’obiettivo da raggiungere, l’ottimo da ottenere. Per cui non mi sono mai permesso di perdere nemmeno un minuto del mio tempo libero estivo, mi son sempre ripromesso di godere di ogni secondo di luce, di far durare Maggio, Giugno, Luglio, Agosto e, perché no, Settembre, più che potessi.

C’è sempre modo di migliorarsi e, come era solito dire il Drake, la vittoria più bella è la prossima, ma nella “settimana brensa” che avrebbe potuto dare il nome all’articolo, sono andato molto vicino a quella sensazione di felicità che ho provato ad anticipare con questo preambolo e che cercherò di spiegare nelle righe successive. E, si badi, a voler fare i pignoli tutto questo è avvenuto in Primavera perché, tecnicamente, il solstizio d’Estate cade il 21 di Giugno, come era riportato sulla fotografia, mentre ciò che segue è avvenuto prima. 
I don’t mind, esigenze narrative e/o licenze poetiche: transeat.


Sabato 10/06/2017, Villa Boschetti – San Cesario.

Matrimoni Emiliani: I love'em

Ogni matrimonio ha il suo perché e a volte qualche perché no. Fortunatamente sono pochi quelli in cui ho sperato venisse presto l’ora di evacuare la zona, della maggior parte conservo meravigliose seppur labili (e i contorni poco definiti sono un omaggio dell’alcol) memorie. Ce ne sono alcuni però che possiedono un peso specifico inestimabile, ossia quelli dei migliori amici, di quelli più cari o dei compagni di classe. 
È come se fosse una Festa di Compleanno 2.0, s’avesse l’autorizzazione di dire fare baciare lettera testamento, e venissero previsti condoni e indulgenze plenarie per sguardi equivoci, parole storte o brindisi che hanno insanguinato di vino camicie appena uscite dalla sartoria.
Quando poi si ha l’onere e l’onore d’essere testimoni (ed io, non lo dico per vanagloria ma per sincera contentezza, lo sono stato per tre volte) si vive uno particolare stato di grazia che amplifica e giustifica un maggiore grado di gioia ed entusiasmo. Che poi per il prossimo questo si traduca nel rendersi pesanti e insostenibili, amen, dettagli.

Esistono vari tipi di amicizia.
Si può essere amici di infanzia o esserlo diventati perché della stessa compagnia. A volte il legame deriva dalla pratica comune di una disciplina sportiva o dall’avere costantemente a che fare sul posto di lavoro. Se si è particolarmente fortunati si creano amicizie anche dopo i venti anni, quando percorsi laterali si incrociano all’improvviso, facendo uscire allo scoperto persone che, pur non sapendolo, aspettavano solo di conoscersi. Esiste però un tipo di amicizia che trascende tutte queste ed è quella che nasce e cresce sui banchi di scuola, in cui l’appartenenza a un non-senso comune si trasforma in un sentimento di cameratismo non diversamente replicabile, e questo perché si impara a condividere gioie e dolori dei compagni, si fanno propri gli obiettivi raggiunti e gli insuccessi altrui, le grandi perdite e le piccole conquiste di qualcun'altro diventano le tue.

Ciò che viene generato da sensazioni di questa natura è l’annullamento di qualsiasi distanza di spazio o tempo. 
Oltre la Maturità ci si può perdere di vista per mesi, a volte anni, trasferirsi in un altro paese, cambiare giro. Eppure ritrovarsi, anche se di tanto in tanto, abbatte ogni barriera perché il “trascorso insieme” è qualcosa di visceralmente attecchito dentro e, come scriveva Tolkien:”Le radici profonde non gelano”. E allora rivedersi, seppur una volta a stagione, è come se ci si fosse salutati il giorno prima, è come se nessuno si stupisse se, passato molto tempo, lo sbronzone di turno fosse rimasto tale, l’attaccabriga di livello mondiale non fosse cambiato di una virgola, il tombeur de femmes si fosse solamente adattato ai mezzi di comunicazione moderni e l’intellettuale del gruppo continuasse a squadrare gli altri con un misto di “che bello ma che bello” e “ma chi me lo fa fare di vedervi fare ancora schifo dopo tanti anni?”

Giuro che avrei voluto scegliere una foto insieme ma "Oscar Giannino strikes again" ha vinto.

Detto ciò, anche per smorzare l’eccessivo grado di stucchevolezza che potrei raggiungere se continuassi, a referto vorrei appuntare alcune cose brense che vale la pena menzionare per non correre il rischio che vadano perse tra i meandri delle chat di whatsapp.
Checco che manda affanculo fotografi e fotografati. Il Grego di Dufo. Essere a tavola con i genitori della sposa e sperare che non abbiano sentito nulla dei nostri discorsi. Goppy che parla di Feng Shui quando è quello che tiene le birre da 33 nel cassetto basso del frigo dove solitamente la gente normale mette le verdure. Io nella parte di Oscar Giannino II – Il Ritorno. Checco che intona Voodoo People. Aver costretto il DJ a mettere Wonderwall e averglielo ricordato vergandolo sul tavolo. Gente che perde i sensi o a cui escono i gomiti. Noi che cerchiamo di convincere la sposa che un matrimonio senza l’arrivo dell’ambulanza non può dirsi veramente riuscito. Checco che si sveglia a casa di Goppy chiedendomi che ore sono perché forse è meglio se chiama a casa.


Vabbè, la metto lo stesso, e ciao che t'amavo.


Flash Forward

Svegliarsi su un divano altrui in un paese diverso dal proprio solitamente presenta più contro che pro, elenca più contrari che sinonimi di benessere, ma ha anche tanti “perché sì” riguardo cui è spesso bene non indagare. Alle sette e mezza di domenica mattina il caldo e la luce che spuntano dal balcone di casa di Goppy mi destano dal torpore alcolico e l’autobahn per il mare mi attende. Ho un hangover fotonico ma a Cattolega sono di istanza donna Ilenia, la piccola Benedetta e mia madre, ed io avverto il bisogno fisico e mentale di ricongiungermi a loro perché, come canta Divi:”Che bello che era avervi attorno, come aver trovato un posto al mondo dove alla fine fare ritorno”
Saluto l’ospitale ex-rappresentante di classe a cui rifiuto l'offerta di un caffè, mossa della quale mi pentirò amaramente, e mi dirigo verso la nuova e sperduta entrata di Valsamoggia.

E aver paura che cominci il giorno e che la luce ti cancelli il sogno

Percorrere l’autostrada può sembrare un “atto mancato”, Freud lo avrebbe definito così o in maniera simile. Forse è più un piacevole sovrappensiero o il trasformare qualcosa dal passato ombroso in un momento felice. L’A14 è spesso stata, per me, una strada di sacrificio (si legga qui) e perché un giusto revisionismo storico mi permettesse di rivalutarla sono passati anni. Quel che mi è rimasto si rimaterializza nella mia mente mentre guido, ancora una volta, da solo e non accompagnato, immerso nei miei pensieri e nei nefasti ricordi di tempi che furono. Eppure, nonostante sia dritta, noiosa, per nulla interessante e monotona, non riesco a non farmela piacere. Da che sono bambino sarò entrato in ogni autogrill, mi sarò fermato a pisciare in quasi tutte le piazzole di sosta, sarò uscito ad ogni casello tranne da quello di Castel San Pietro Terme che, ogni volta, mi chiedo che paese possa essere, specie questi giorni in cui una mia amica di facebook si è geolocalizzata proprio da quelle parti.

Imbocco lo svincolo di Cattolica, l’ultimo nonché il più a Sud dell’Emilia-Romagna. 
La Riviera è sempre, come per magia, uguale a sé stessa. I bagni, la bomba, le granite alla menta, i tedeschi con le calze e le infradito, le stazioni dei treni, i viali alberati, gli anziani di adesso vestiti come gli anziani di trent’anni fa, le generazioni che si ripetono nello stesso identico modo, le edizioni cittadine de “Il Resto del Carlino”, gli edicolanti che rispondono in crucco anche a te che sei italiano, i risciò, i fotografi sul bagnasciuga, i ristoranti di pesce ogni tre metri, il profumo di cappuccio e cornetti che di mattina pervade i corsi interni, l’odore della salsedine, il bar sul pontile dove vorrò passare i miei ultimi giorni scrivendo le mie memorie. Le uniche cose che sono cambiate sono la gestione dei negozi di paccottiglie, ora in mano al racket di indiani e pakistani, e la mia tardiva scoperta della piadina con la porchetta. Mancano le cartoline, quelle delle donne con le chiappe sabbiose al vento o dei pedalò innevati sulle sabbie invernali, deserte e malinconiche. Come ho già avuto modo di ribadire in altre sedi, a volte sembra tutto troppo, nel senso che c’è il rischio di farsi incantare da tanta inezia e accondiscendenza. Di contro però l’essere serviti e riveriti ad ogni angolo, o il sentirsi coccolati e al centro dell’attenzione, mette di buon umore, fa scordare le beghe del lavoro e accantona i cattivi pensieri. Un atto mancato muta, in un attimo, in una linea di rottura: venire in Romagna cambia radicalmente l’approccio alla vita generando un atteggiamento nuovo e più polleg.


La luce che rimbalza sull’acqua della piscina del bagno "I Delfini" sembra incandescente, irradia riflessi ovunque, un brillante arcobaleno blu. Da mezzo montanaro ma soprattutto da homo sapiens varietà cittadinus faccio fatica ad acclimatarmi ed entrare in vasca adattandomi al nuovo elemento, specie perché ho ancora addosso una botta memorabile per cui ogni dettaglio mi risulta tutto troppo chiaro, colorato e accecante, e anche portare gli occhiali da sole “da vecchio” (così disse Santu a Trento) aiuta ma è sempre un circa-quasi. 
Domenica e Lunedì volano via, è un costante susseguirsi di “Pictures of You” dove il “You” è la piccola che s’azzarda a camminare sulla riva con mia mamma che le stringe le manine mentre lei sorride, gattona intorno agli ombrelloni volando sulla sabbia ogni tre per due, lancia i giocattoli fuori dal gonfiabile (ed è la prima volta che, cucendo gli scontrini sui miei taccuini ne trovo uno con la dicitura “giocattoli”, che stona e fa specie rispetto a tutti gli altri, che sono a saldo di birre comprate a “Tutto a 1 €uro”, piadine, cocktail), caga nel gonfiabile, sguazza in piscina. 
Momenti non barattabili che riconciliano col clima infame in cui si è costretti a vivere quotidianamente, che smorzano le cose brense di tutti i giorni lavorativi, un impegno enorme ma leggero che dà implicitamente risposta ad ogni domanda di merda che mi tiene sveglio la notte. 


Ha senso inacidirsi lo stomaco davanti a mail urgenti, richieste brucianti, obblighi necessari solamente se il feedback non viene da quel mondo ma da un altro, questo, perché sono gli unici momenti in cui sembra di vivere altrove e in nessun posto e, nonostante sia reale per troppo poco, è il migliore tra tutti i possibili places & times to be.


Rivoluzione Industriale 3.0

La sola nota positiva del tornare a casa dal mare è fare tappa in autogrill. 
La classica rustichella strinata fuori e cruda dentro è un sacrale musthave di una cena lungo la strada. Anche perché poi, a tarda sera, quando a banco non c’è più anima viva, anche i commessi paiono più felici nel servirti un caffè americano che neanche in Twin Peaks. Insomma, pure non-luoghi (o luoghi-altri) come questi, dove “brenso” è la parola d’ordine si scoprono calorosi e confortevoli: non dico che vorrei passare qui i miei venerdì sera più ribaldi ma dico che per un non-tempo, ricavato tra un’entrata e un’uscita autostradale , possa essere il posto giusto dove trovarsi certe sere.

Avete presente quei pezzi che ascolto diecimila volte e non mi annoiano mai?

Se sono ben disposto a rincasare di lunedì sera, consapevole che l’indomani mi aspetta un tremendo rientro al lavoro dopo un week end di matrimonio + fuga al mare, è anche perché le condizioni di ingaggio autostradali ma soprattutto la colonna sonora sono adeguate e rendono il ritorno alla quotidianità meno complicato. Non lo decomprimono né lo possono depurare da ogni futura ed eventuale controindicazione ma di sicuro gli conferiscono un sapore più accettabile, un retrogusto agrodolce: ho mandato giù di peggio facendo finta d’essere pure contento.

Cose buffe che si trovano nei bagni degli autogrill

E va bene così perché tante volte mi ritrovo a pensare alla nostra epoca come fosse una sorta di nuova rivoluzione, dove la pesantezza non è dei materiali o delle idee, e va oltre il concetto di “Produci Consuma Crepa”; è piuttosto una gravità mentale che ci attanaglia costantemente: sono gli ASAP, i FIY, i “Priorità Urgente”, i “Magari in giornata”, le "Conference Calls" in pausa pranzo per guadagnare tempo. Tutte cose che, nemmeno troppo alla lunga, mandano in pappa il cervello perché siam diventati sincopi delle nostre stesse macchine, siam costretti a lavorare in multitasking senza esserne in grado, dobbiamo accettare ogni scambio senza poterci più lamentare, creare prassi nuove ogni volta, appellandoci in ultima istanza ad un senso del dovere che ha perso il suo più puro significato molto prima della crisi di qualche anno fa.
Come cantava Lorenzo quando non aveva ancora le tafche piene di faffi:”Le regole non esistono, esistono solo le eccezioni”.

Il ragazzo non ne sbaglia una

Ci sono giornate in cui vorrei uscire dall’ufficio, volare a casa e bere quanto basta per ubriacarmi e dormire da signore, sperando di sognare tutta la notte. Non succede quasi mai ma con le ragazze al mare posso concedermi uno strappo alla regola e addormentarmi sul divano dopo aver bevuto due birre in piena modalità Homer Simpson.
Capita raramente di ricordarsi i propri sogni, per non dire che non capita mai. Ebbene i sogni della notte sono addirittura due e li rammento perfettamente entrambi. Se il primo è qualcosa di orribile e, proprio in virtù di questo, indimenticabile, per il secondo occorre aprire un tra-parentesi.


Su imbeccata del Bret, mi sono infatuato di una di quelle cose che possono piacere solo a me e a chi ha la mente malata come la mia: “The Man in the High Castle”. Basata sulle righe de “La svastica sul sole”, romanzo di Philiph K. Dick, l’ucronia all’origine di questa serie è che non siano stati gli Alleati a vincere la Seconda Guerra Mondiale, bensì le potenze dell’Asse. Al di là della trama o dell’indiscutibile fascino Nazi, è intrigante la rivisitazione di una Storia completamente diversa ma, per tanti tratti, uguale a quella che conosciamo noi. Non è tanto lo stupirsi del “Come sarebbe andata se…” quanto il rendersi conto che, pur dandole per scontate quasi fossero un male necessario dell’indotto democratico, la nostra civiltà occidentale abbia sopportato brutture e storture cui non si è dato alcun peso o cui nemmeno si pensa più. 
Avrei divorato anche la seconda stagione ma purtroppo non ho avuto tempo e sto centellinando la visione delle ultime puntate, godendomele più che posso e nell’attesa che Amazon Prime confermi (quasi certo) la terza temporada.

I sogni hanno inneschi oscuri ed enigmatici, combinano tra loro fattori che, solo formalmente, potrebbero risultare ininfluenti o di poco conto. 
E dunque succede che a cena si parli del funerale di una persona, si arrivi a fare un discorso più ampio sulle epigrafi e sul significato che possono avere, circa l’importanza di diffondere notizie tristi ma con cui intercettare l’interesse di più gente possibile, far così sì che anche un necrologio possa tradursi in affetto e compassione. Può anche capitare, e lo stalking su facebook se applicato in dosi minime ne è prova, che ogni tanto si cerchi un contatto denotificato da tempo, giusto per vedere se è ancora al mondo e come se la passa. Infine, se a questo aggiungiamo la sbandata presa per l’uomo nell’alto castello, allora il pranzo o, meglio, il sogno è servito: cotto e mangiato.

Ebbene, l’incipit era in medias res: evidentemente, ad un bivio della mia esistenza, nella dimensione onirica avevo preso una strada diversa da quella battuta nella realtà del mio nowadays. Nel nuovo slice of life vedevo me stesso in una vita completamente differente dall’attuale, circondato da persone conosciute ma inconsuete, discutendo con esse di quello che era e di quello che sarebbe stato: un concentrato di serene e tranquille distopie. Pioveva intensamente, non a dirotto ma con insistenza, tra luci soffuse grigie e bluastre, che se fosse stata l’ambientazione di un film sarebbe stata quella di Blade Runner. Mi son svegliato a malincuore perché, complici le birre bevute prima di addormentarmi, il bisogno di andare in bagno era diventato impellente e forse tutta l’acqua presa in sogno era uno spiccato richiamo a Inception. Sebbene non potessi affermare di essere in sogno più o meno felice di quanto non lo fossi e non lo sia nella realtà di tutti i giorni, mi sono rimaste appiccicate addosso sensazioni di grande dolcezza ed emozioni lenitive. Era come in “The Man in the High Castle”, dove è concessa ad alcuni personaggi la gravosa possibilità -SPOILER ALERT- di scappare dal mondo in cui vivono e dischiudere, per sempre o anche solo per un momento, universi paralleli.
Non vivendo nella New York del Greater Nazi Reich o nella San Francisco dei Pacific States, io questa opzione non ce l’ho, tuttavia il sogno è stato un seducente intermezzo, è stata una serie di cose brense, che, anche solo in parte e per pochissimo tempo, mi hanno riappacificato con il mondo di merda che mi tocca affrontare dalle sette e mezza di mattina alle sei e mezza di sera, tutti i giorni feriali.
O forse, più verosimilmente, il cambio di prospettiva sognato era dovuto allo scherzo di qualche bontempone che mi aveva sciolto dell’LSD nelle Moretti.

Un attimo che calo la briscola e spacco il tavolo.


La felicità è senza limite, viene e va

Son tornato a lavorare il martedì, il mercoledì e il giovedì e, se dovessi definirli, li direi "sturmunddranghiani". Dopodiché mi sono bellamente disintegrato i coglioni dell'aver a che fare con una pletora di casi umani che la metà bastava, che mi son giocato un altro giorno di ferie per raggiungere nuovamente le mie donne al mare.
Partito alla bersagliera quando il tramonto faceva capolino, con addosso tutte le nevriti della settimana corta, son riuscito ad estinguerle nei pressi di Forlì quando, pescando dal mazzo dei cd di donna Ilenia, ho messo su T.R.E e me lo sono ascoltato in rigoroso silenzio fino a Cattolica. Fondamentalmente è stato come richiamare alla mente una liturgia assopita ma mai dimenticata.
Gobi e Bolormaa, forse più la prima della seconda, sono state l'epifania in musica del mio stato d'animo. Il frastuono confuso delle chitarre che lascia campo ad un mantra, gli armonici e le parole semplici quanto struggenti: un traboccamento di gioia e dolore, la consapevolezza che non esistono equilibri ma solo equilibristi della vita.

Anche se solo per una sera e per il venerdì successivo, il tempo trascorso in spiaggia è stato, ancora una volta, catartico. Giovanni Lindo in una delle due canzoni sopraccitate cantava che "Densamente spopolata è la felicità" ed è assolutamente vero. Tuttavia certi momenti bisogna conquistarseli e beneficiarne quanto più possibile, che tanto o si è in credito col Dio o col Karma e prima o poi uno dei due presenterà fattura. E allora mi si scioglie il cuore nell'accompagnare, insieme a donna Ilenia, i primi passi della bimba sul bagnasciuga mentre tutta la gente si ferma a guardarci, ogni brutto pensiero è spazzato via nel vederla sgambettare in piscina e sentirci chiedere a quanti mesi l'abbiamo portare a fare acquaticità e a farle avere familiarità con l'elemento.
Mi rendo conto di due cose.
La prima è la fortuna del trovarsi nel miglior percorso in cui Dio, o il Karma, ci abbiano instradato. Domani sarà un altro giorno, ma intanto festeggiamo il festeggiabile che per spiegarci sconfitte o battute d'arresto abbiamo tutto il tempo di questo mondo. Spieghiamo solo le braccia alla creatura.
La seconda è che la vedo già a quindici anni, quando io sarò la persona più imbarazzante ed impresentabile della sua vita, e non solo perché conto di bere molto più di adesso ed innervosirmi per molte più cose, ma anche per tutta una serie di dettagli che sono lapalissiani senza bisogno di entrare nel merito. Dunque, per quanto suoni stucchevole, per quanto potrei vergognarmi, anche solo tra dieci minuti da adesso, di aver pensato e scritto queste cose... tenermela vicino, sentire la carne che cresce, quella felicità di cui parlano i C.S.I., qualche abitante, seppur per poco, lo conta.

Punto primo chiudiamo un cerchio.
Punto secondo quando ce vo', ce vo', fosse solo per un attimo



Intervallo di folklore contadino.
La mattina mi son svegliato prestissimo e sono andato a correre. Sono arrivato fino all'hotel in cui siam stati l'anno scorso a Gabicce. Sebbene credessi fosse in un altro emisfero, distava tre chilometri e mezzo dal nostro residence a Cattolica. Fa ridere perché in macchina ci vorrebbero venti minuti e comunque si passa da una regione ad un'altra.
Promemoria da calendario di Frate Indovino.
Mentre correvo mi son fermato a vedere e visitare tutte le chiese incontrate lungo la via, compresa quella in cu iero stato a Messa la scorsa estate. Fa specie rivedere un luogo di culto dopo tanto tempo, fa piacere tornarci, è confortante sapere che certe preghiere non sono rimaste inesaudite. Il notabene è che quando al mare indicano gli orari "estivi" delle celebrazioni, intendono dal primo di Giugno all'ultimo di Settembre, in pratica la stagione turistica, quella dei bagni. Ci sta, le giornate iniziano in oratorio e finiscono in osteria: makes sense.


Outro



La settimana brensa, calendarizzata da sabato a sabato, si è conclusa con il matrimonio di una cara amica di donna Ilenia, in una magnifica location sulle colline di Pavullo. Ero talmente coinvolto emotivamente dai giorni precedenti che, come direbbe Santu:"Paesaggio". È stato tutto sicuramente fantastico ma solamente un contorno, un ad libitum sfumando, quando la canzone rimane bella ma ha già detto tutto quello che aveva in pancia.

La settimana brensa, calendarizzata da sabato a sabato, si era aperta con un taglio tattico alla Barberia di Pavullo.
Fa ridere che io vada dal barbiere, lo so.
Il fatto è che c'ero andato per rifilare barba e rasarmi la cabeza da soldato, pronto per far vedere il miglior me al matrimonio di Chicco.
Mentre mi slamava il gargarozzo, il Figaro del Frignano mi chiedeva se scrivessi ancora, se suonassi ancora, se giocassi ancora a calcetto. Gli ho risposto che no, non facevo più nulla di tutto questo.
"E allora cosa fai? Casa, lavoro, famiglia?"
"No, be'. Ogni tanto porto via il rusco. Ma non vado nei pattumi più vicini, vado in quelli più lontani così ho tempo di fumare una sigaretta in più senza che nessuno mi rompa i coglioni".
In realtà non è proprio così: è che se alla domanda "Cosa fai?" avessi risposto:"Cose brense", il barbiere non avrebbe capito, avrei dovuto spiegare, raccontargli a voce tutta questa sbabbelata e considerando quanto aveva da tagliare, il tempo non sarebbe stato sufficiente.
Intanto dovevo celebrare l'estate, seppur condensata in una sola settimana di tarda primavera o in una scatola da scarpe, descrivere l'ottimo raggiunto e tenerne buona nota, sarebbe bastato e basta saper questo.

Processi naturali

Nomen omen o, anche, nomina sunt consequentia rerum.


 


Subito due nota bene.
1) Avessi a disposizione una sola parola a didascalia della foto di cui sopra, userei questa: decompressione. Inoltre Blogger dà una sola slot di immagine da inserire nell'anteprima dell'articolo, e questa, nata quasi per caso, è forse la migliore tra quelle che avevo in mente.
Una tiepida sera primaverile nella piazza di uno dei miei domicili eletti, un dehor vivo e rumoroso che si svuota all'improvviso con il sopraggiungere della brezza che scende dalle colline e che soffia lungo i vicoli dell'antico borgo. L'immagine non è nitida, i contorni non sono definiti ed in fondo questo è il suo bello: i luoghi dell'esistenza hanno varie sfumature e pochi dettagli. Ciò che conta è fermare gli istanti, decomprimere i processi naturali che si celano dietro, cercare i vuoti tra i pieni, un senso tra i tanti colori che si confondono tra loro, recuperare le idee di felicità sparse cui non abbiamo prestato abbastanza attenzione.

2) Linkato all'incipit Crayon dei Manitoba, un pezzo rapido ed indolore così come rapidi ed indolori sono stati i tempi di questi appunti.



Riavvolgendo il nastro, dicevo che dietro ad ogni nome si nasconde il presagio di quel che sarà, in parole più povere, è sempre difficile e allo stesso tempo cruciale dare un titolo a un proprio scritto, di qualsiasi natura esso sia. Ed ogni volta che capita penso sempre a come il testo di Mi Ami dei CCCP non potesse realmente definirsi tale bensì l’ordinata raccolta di titoli un libercolo erotico letto da Ferretti. 
Intenzionale? 
Casuale? 
Davvero “spermi indifferenti per ingoi indigesti” poteva essere il titolo di un capitolo del saggio in mano a Giovanni Lindo?
Chi nisuno sa, direbbe Josè (di cui qualche menzione si ritroverà qualcosa scorrendo le sottostanti righe), eppure credo che il filo rosso che collega gli appunti sparsi catalogati nel mio secondo e ultimo taccuino giallo diarrea sia la naturalezza dei processi. 
In “Dentro Marylin”, Manuel Agnelli cantava de “il naturale processo di eliminazione” e mi ha sempre colpito l’abbinamento delle parole “naturale” e “processo”, più che altro perché formavano una specie di ossimoro, qualcosa di dissonante, una contraddizione in termini. O si tratta un processo, ossia qualcosa di logico, di pensato, che risponde a precisi parametri, oppure è qualcosa che segue una sua strada e che questa si possa svelare solamente alla fine, dipanandosi in ultimo come una matassa imbrogliata, rendendosi palese e chiara come mai prima di quell’istante.
Il fatto è che la vita, l’esistenza, è controversa per definizione: la meccanica che vogliamo sottintenda ogni foglia che si muove, in realtà è, paradossalmente, più naturale di quanto crediamo. 
Mastro Noel scriveva, nel lontano 1998, o giù di lì:”I don’t believe in magic, life is automatic”.



02/04/17 – Sant’Antonio Vs Carpi. Daje Francè.
Il Papa oggi è Carpi. Ho discusso (leggasi “questionato”) con diverse persone circa la bontà ideologica (ammesso che la parola "ideologia" abbia ancora una parvenza di significato) del Vicario di Cristo e dell’importanza della sua figura. Credo sia inutile prodigarsi in tale dialettiche, specie quando ci si imbatte in chi non fa differenza tra Chiesa e Fede. Si può essere vicini a Dio e non per forza ai preti. Postulato questo, possiamo parlare di religione; diversamente non solo non abbiamo niente da dirci, ma ho paura che gli interlocutori del caso non sappiano nemmeno cosa pensare al riguardo.


03/04/17 – Spezzangeles. Oltre le stelle.
È curioso perché per quante io volte possa avere ascoltato “Ok Computer”, ed in quante diverse fasi della mia vita io lo abbia fatto, ne ricolleghi l’idea solo all’ultimo viaggio a Merano a bordo della furga familiare.
Davanti eravamo io, Max e Berta e per alcuni tratti del viaggio ce lo siamo risentiti, pontificando sul quanto fosse bello e ancora attuale. 

21/11/2016, Riva del Garda rethink.
Io voglio e spero che questa diventi una tradizione annuale. Poi ognuno di noi prenderà la sua strada ma avere la possibilità di condividere anche solo una minivacanza insieme ai propri migliori amici e alle loro famiglie è una fortuna di cui esser grati.

Ad ogni modo pesco sulla pagina di Deer Waves la scaletta dell’ultimo concerto dei Radiohead, e dell’album totemico di cui in oggetto leggo l’esecuzione di solamente tre pezzi. Tolto “No Surprises”, scontato come un cane di nome Black, le altre due sono “Electioneering” e “Let Down” (non c'era "Paranoid Android", tanto per dire). Al tempo, vale a dire vent’anni fa, le canzoni summenzionate non mi piacevano, non erano tra le mie preferite, erano quelle che (avendo la musicassetta dell’album) lasciavo andare e nel mentre andavo a pisciare o a rispondere ai miei circa qualsiasi cosa m’avessero chiesto mezzora prima. 
Non so cosa sia, forse la stagionatura, che certi pezzi devono decantare per poi entrare in circolo, un reiterato ascolto distratto, tutto può essere. Il punto è che io, come scrivevo prima, ho sempre ascoltato questo disco, non è qualcosa che abbia archiviato e poi richiamato all’ascolto; voglio insomma dire che in qualsiasi momento della mia vita dal 1997 avrei potuto trovare belle “Electioneering” e “Let Down”. Invece no, è come se la piena comprensione delle canzoni si fosse snodata lungo un intervallo di vent’anni; eppure non ci sono stati ostacoli o prescrizioni: è stato un processo naturale.

Oggi una mia conoscente ha compiuto quarant’anni e, mentre lo raccontava, è entrata in scena una ragazza molto più giovane. Di rimando agli auguri, la più anziana le ha allora chiesto quanti anni avesse lei e alla risposta “venti” ho intravisto nei suoi occhi quel profondo senso femminile di invidia mista a scoramento, quand’io (in tutt’altra dimensione di deduzione) ho invece fatto un po’ di matematica contando all’indietro fino al 1997, l’anno dell’uscita di “Ok Computer”. 
La sintesi di questa sbabbelata è che per metabolizzare il disco mi è servita una generazione di passaggio, e forse non ho ancora finito. Ora, di certo io non sono il massimo conoscitore di musica mondiale, ma non mi sembra così peregrino pensare a quanto grande fosse un disco e a quali/quanti ragionamenti musicali vi fossero dietro, se ha resistito alla prova del tempo e se a distanza dello stesso è ancora in grado di sorprendere e generare emozioni.

I’m gonna grow wings, a chemical reaction
Si diceva, dei processi naturali?


04/04/17 – Spezzangeles. Non è tempo per me (semicit.)
Se per ogni “Va bene” e “Hai ragione” detti senza convinzione avessi un euro, a quest’ora sarei in dialisi perché avrei percentuali in diversi bar della zona.


06/04/17 – Spezzangeles. Non so cosa ma qualcosa vorrà pur dire.
Ogni tanto c’è qualcuno che scrive cose interessanti su FB. Non che questo avvenga sovente ma quando accade prendo nota. Un ragazzo brillante ha commentato un post con tre parole che ho appuntato:”Addomesticare la rabbia”. 
L’autore s’è anche chiesto se questa, ovvero la rabbia, spesso non covi da altre parti, quasi fosse l’Obscurus di “Animali fantastici e dove trovarli”.


08-09/04/17 – Fontanellato, Castell’Arquato, Salsomaggiore, Fidenza Village.

Colonna sonora della gita in quei di Parma e Piacenza è stata la selezione di pezzi compilatami da Alberto Lioy. Avrei voluto pubblicare "Cassetteboy's Theme" dei "Working for a nuclear free city" ma purtroppo non è disponibile in Italia. Ripiego, si fa per dire, su questo pezzone.

Credo che l’Emilia, propriamente detta, vada a Imola alle ultime propaggini della provincia di Parma e già questa sia non solo geograficamente ma anche culturalmente molto lontana da Bologna.
Il tratto distintivo della “R” moscia è qualcosa di tanto buffo quanto assurdo e, quando uno ci pensa bene e riconduce la cosa al dominio francese, s’arriva a considerarlo un retaggio incomprensibile. Comunque sia, venire da queste parti e ascoltare i locals che favellano tra loro mi ha ricordato i miei compagni universitari del corso di Laurea Specialistica. Parlarne è un tema ricorrente sulle colonne di queste blog ma aver sentito dal vero gente con stesso accento e cadenza è stato qualcosa di più forte rispetto all’aver rievocato immagini che me li ricordassero.

Fontanellato è qualcosa di nascosto in un’estremità sperduta della mia memoria.
Esistono tre categorie di luoghi figurati archiviati nel profondo delle nostre esistenze. Alcuni di questi sono emblematici (per me lo è, exempli gratia, il Carrefour di Massa), domicili eletti e riscoperte solo apparentemente casuali. 
Le ultime del lotto sono forse le più interessanti perché son sempre state dentro i nostri pensieri ma annidate in angoli remoti e poi sbucate fuori all’improvviso ma nemmeno troppo all’improvviso: come se il cervello avesse puntato una sveglia perché ad una certa riemergessero dall’abisso dei ricordi. Raramente però è un caso. 

L'Emilia sa essere bellissima anche e soprattutto quando non la descrive Vasco Brondi.

A Fontanellato sono già stato da bambino, ho una sorta di dèjà vu ma non riesco a ricostruire i particolari dell’eco visiva e mentale. Ci fermiamo a pranzare in un’osteria con vista rocca. Ci dice bene, anche quando eravamo stati a Gradara avevamo avuto la buona sorte di trovare un ristorante fuori dai coglioni ma ben posizionato tatticamente in cui mangiare bene e con calma.
Davanti a noi si è seduta una coppia con un bambino del tempo della Benedetta, sono accompagnati dalla madre di uno dei due, direi di lui. Io ho il grave difetto, in contesti come questo, di non farmi i cazzi miei, di origliare i fatti altrui e farmi viaggi che la metà basterebbe. L’uomo è di spalle mentre la ragazza è una tipa decisa, s’è visto fin dall’ordine del menù. Naso affilato, nemmeno troppo bella ma con un viso di quelli che colpiscono, pantaloni larghi e lenti, probabilmente un ex-sportiva, forse una nuotatrice o una pallavolista a giudicare dalle spalle, corporatura “aumentata” ma tipica di chi ha praticato uno sport faticoso o di grande disciplina fisica, interrotto di colpo per cause di forza maggiore (o peggiore). È perentoria, ha una forte indole di comando, non ha portato un gioco che sia uno per il bimbo, parla solo lei, non ne fa passare mezza né al compagno né alla suocera.
Chissà come dev’essere per lui, e chissà come dev’essere per l’altro, perché un altro questa ce lo ha di sicuro. E spero anche che non mi leggano mai, né lei né lui e né l'altro.

Castell’Arquato, “Giardino degli innamorati” (si chiama così, non è per fare lo stucchevole).
È strano ritrovarsi a pronunciare queste parole:”Che pace che c'è qui”.

È un peccato non raccontare niente di questa perla del primo Appennino Piacentino.
Ma va bene così, ho già detto tutto.

Salsomaggiore è liberty, così liberty da risultare kitsch. 
Dopo aver riscattato uno smart-box con scadenza bruciante, alloggiamo in un albergo che sarebbe parso demodé negli anni’80 e in cui il tempo, come nel resto del paese, sembra essersi fermato. Che ci si è talmente abituati a riferirsi a quell'epoca che non ci si rende più conto che l’intervallo temporale è quasi di due generazioni: si va indietro tre decadi di decadenza; pronto? Mi trovo a pensare a cosa volesse dire essere ricchi e benestanti in quell’epoca, se significasse passare una settimana in un hotel così trash, se la dolce vita salsese fosse andare alle terme (che ho paura mi venga il tetano solamente guardandole dall’esterno) se benessere equivalesse a “di notte chiudiamo alla mezza, l’una” (va bene non avere il night manager ma cos’è, una caserma?) e a “si cena alle sette e mezza” e “la colazione c’è fino alle nove e tre quarti, tranquillo”, che mancano solo i servizi di corvée come ai campeggi estivi parrocchiali e sam a post

Uno ci scherza ma Salsomaggiore è veramente così

La cameriera che ci serve è fuori luogo come Antonio Cassano al Salone del Libro: capelli magenta e piercing a naso e orecchie. È un po’ impacciata ma molto carina e simpatica, e, anche in questo caso, mi costruisco castelli sulla di lei vita. Ha citato il suo paese d’origine, un borgo isolato a qualche decina di chilometri da qui, sui colli piacentini: immagino che abbia pescato qualche carta di merda dal mazzo e che, per una qualche grazia ricevuta, ora stia parando i colpi andati a vuoto ma non abbia trovato nessun mestiere migliore di questo. Provo una forte empatia per lei, le ricambio ogni gentilezza: a ognuno il suo processo naturale.
Davanti a me c’è una coppia che, come credo il 90% delle persone sedute a tavola stasera, è qui perché ha usufruito del cofanetto-regalo. Gli habituè si notano, si muovono con disinvoltura nel loro accettare quel che viene senza aspettarsi troppo. Gli invitati, i convenuti e i partecipanti sembrano in prestito: rivolgono domande senza senso, pretendono cose assurde che non verrebbero loro concesse nemmeno con un sovrapprezzo, paiono paracadutati da un altro mondo. Vestiti a festa nemmeno fossero alla Francescana, fare elegante, gesticolare ridotto: per loro sento una sorta di pena mista a stupore.


Fotografie che potrebbero essere copertine di album del Faber e invece diventano cover dei miei articoli


10/04/17 – Sant’Antonio. Incubi reali. 
L’anno scorso sono cambiate due cose nella mia vita.
La prima, più importante nell’economia dell’esistenza e della felicità, è che sono diventato papà.
La seconda è quello che, in questo articolo, avevo definito “l’evento esterno”. Nonostante non abbia, in questo momento, di cui preoccuparmene né sappia se dovrò un giorno ancora farlo, ha lasciato un’impronta indelebile, quasi ora ci fosse un prima e un dopo, e non solo non si potesse più cancellare ma avesse profondamente alterato quello che al tempo era il mio futuro e quello che ora è il mio presente. È un incubo reale, una paura che si ripresenta ogni mattina prima di andare al lavoro e che non riesco a scacciare: qualcosa che ha scavato in profondità e che ora è difficile da mandare via.

Non so, è come quando mi son disintegrato la caviglia destra e, solamente dopo un lunghissimo e interminabile periodo di recupero e riabilitazione, sono tornato a giocare a pallone. Ricordo che usavo il piede buono esclusivamente per camminare, colpivo solo di sinistro e, essendo terzino destro con buona corsa, ogni volta che mi ritrovavo a crossare ero costretto a quindici manovre diversive per scartare il mio dirimpettaio, guadagnare spazio, vedere in mezzo e coordinarmi in maniera del tutto innaturale pur di calciare col piede debole.
Andò avanti così per un bel po’, fino a quando, dopo un’infinita sgroppata sulla fascia, un atavico istinto mi spinse a crossare di destro perché solo così avrei avuto il pieno controllo del giro del pallone, avrei saputo calibrare la forza, il gesto sarebbe stato rapido e non avrei avuto bisogno di troppo spazio per eseguire il lancio: insomma, il fondamentale tecnico sarebbe stato splendido, ineccepibile ma soprattutto performante. E così fu. La palla si staccò dal mio piede un nanosecondo prima che il difensore avversario mi travolgesse, centrandomi in pieno la caviglia, la sfera imbeccò la testa dell’attaccante che arrivava di gran carriera, e questi la impattò con una coordinazione perfetta. La forza e la velocità con cui questa era partita fecero sì che, una volta inzuccata con precisione, si trasformasse in una scheggia imprendibile diretta nel sette, quasi fosse stata schioccata da una fionda, e il portiere non potesse far altro che provare a immaginarsi la scena e ricostruirsela mentalmente una volta raccolta la palla dal fondo della rete. Vidi tutto questo da terra, dove il difensore avversario mi aveva ribaltato con il suo intervento killer, ma in quel momento il dolore alla caviglia era scomparso, lo avevo tirato in cielo insieme a quel pallone, con la paura che m’ero portato dietro fino a qualche istante prima. 

Raccontata così (e forse l’esperienza degli 11 Illustri Sconosciuti aiuta) pare sia un resoconto romanzato degno dell’Avvocato Buffa e un esercizio di stile fine a sé stesso. In realtà è un aneddoto che cerco spesso tra i miei ricordi per trovare coraggio, per ispirarmi e iniettare fiducia in me stesso: la consapevolezza che sia lecito calare corrente dopo aver preso la scossa, che affidarsi al “piede debole” non sia solo una necessità fisica ma anche psicologica; tutto verrà da sé e in maniera naturale, perché a volte nemmeno noi ci conosciamo fino in fondo né sappiamo individuare le linee di rottura con gli shock delle nostre vite, dobbiamo solo aspettare che il motore torni a pieni giri, che venga istintivo riprendere a calciare col piede dritto.

C'era una volta una canzone degli Slowdive, band shoegaze di Sua Maestà la Regina, che non riuscivo a smettere di ascoltare. Si intitolava "When the Sun Hits". A distanza di un botto di tempo, questo gruppo ha dato alla luce un nuovo album. 
Il bravo Lioy,, che già mi aveva anticipato di loro nei ns carteggi mail, ha provveduto a tenermi al corrente, Bertalife l'ha già inserito nel suo hashtag annuale delle canzoni da ricordare e Checco, ossia chi mi ha fatto scoprire gli Slowdive ormai dieci anni fa, viene messo in conoscenza ora. 
Pure questo, a suo modo, è un cerchio che si chiude. Non solo per le persone che racchiude ma anche perché non poteva esserci canzone più adatta a chiusura dello sproloquio di cui sopra: cupa ma energica allo stesso tempo.


12/04/17 – Spezzangeles. Dell’intelligenza.
Premessa. Qualche tempo si disquisiva e si scherzava con gli amici sui vari tipi di intelligenza: quella emotiva, quella discorsiva, quella narrativa. Per quante ne avessimo potute dire, non le avevamo ovviamente pensate tutte.
Salto in avanti di ragionamento. A 35 e rotti anni mi accorgo sempre più di essere un vecchio di merda: ho fatto pace con la crapa rasata e la barba sale & pepe, ho accettato di rimanere defilato ai concerti, porto pazienza quando qualcuno più giovane di me mi ripete una parola perché crede che io non la conosca o non ne abbia colto il senso perché lontana dalla mia cultura anagrafica. Soprattutto però ho pienamente realizzato che di intelligenza ne esiste un'altra, quella estetica, che per definizione è superficiale, infinitamente acerba e allo stesso tempo evanescente, ma più che sufficiente perché ragazze di poco più di vent'anni sappiano perfettamente d’essere belle e fascinose, di avere un culo che suona, canta e dice le poesie, di poter guardare chiunque dritto negli occhi senza abbassare lo sguardo quando dovrebbero essere loro a farlo, se non altro per una questione di anzianità di grado. Sono molto colpito da questa categoria, specie perché non mi sembra abbia né troppa parte né troppa arte, anzi. Credo che queste fanciulle debbano ancora vedere tantissimo di quello le aspetta e se da un lato invidio loro l’età, dall’altra le lascio tutte le agrodolci scoperte che questa si porta in dote. Capisco perché, quando lo buttava nella mischia a soli diciotto anni, Mourinho chiamava Santon “il bambino”.


Non avete mai visto una bella ragazza?

A questa tipologia di intelligenza, rispetto la quale io e i miei compari non avevamo indagato, ne segue e consegue un'altra, che definirei conservativa. Intendo riferirmi al buon senso di non concedere entrature a queste persone, né direttamente né indirettamente: tenere i piedi ben saldi nel dorato mondo dei casini schivati è sempre una buona idea.


13/04/17 – Puianello. Le vite degli altri.
Meglio essere stupidamente convinti di un’idea che convintamente stupidi in generale.


14/04/17, Modena. Compagni di Liceo o anche del perché dobbiamo fare i sostenuti parlando dell’ultimo disco di Bon Iver quando possiamo parlare di figa come abbiam sempre fatto.

"Una volta uscivamo per andare a ballare. Adesso facciamo foto alle piazze. Non dico che non mi piaccia, per lo meno finché tra di voi ci sarà un elettore del mio paese".

Modena s'è fatta bella stasera.

"Se non suono il campanello nessuno mi apre".
"Datemi un rasoio e sarò il vostro Varoufakis"
"Zeman, il 10 puoi dormire da me, sto a 60 mt dalla villa. Grazie Goppy, m'hai cambiato l'estate".
"Le donne, dopo i 40, sono come i giocatori a fine carriera. Ogni anno ce ne mettono 5".
"Siediti con noi e raccontaci la tua storia d'amore".
"Quello con cui sto cercando di farti accoppiare è quello pelato con gli occhiali".
"Il Tassoni era coibentato con uranio impoverito, il materiale restante era illegale".
Eravamo proletariato noioso ma interessante".
"In questo tavolo non c'è amore ma solo opportunità".
“Credevo fossimo fuori a cena e non in ‘Città sotterranee con Alberto Angela’"
"Porta altre Moretti. Una per tutti, anzi una ogni due, anzi portane una a testa".
"Le fontane! Perché non si vedono le fontane?"

Noi no, belli lo siamo sempre stati


#traparentesi: Giovedì e Venerdì Santi fatti con Max. Spero diventi una consuetudine annuale.


15/04/17, Riolunato (Ardondlà, in lingua), in viaggio. Pettegolezzi. 
Da queste parti si dice che per ogni cane che scondinzola c’è un coglione che apre bocca. Spettegolare può avere una triplice valenza: informarsi circa i fatti altrui per scovare un proprio interesse, scuriosare senza capire un cazzo e facendosi un’idea sbagliata, e sparlare degli altri con cattiveria. Per come la vedo io, è lecita la prima opzione: se lo spettegulezz possiede una sua, seppur bizzarra, curva d’apprendimento personale, allora ok e va bene anche quando il risultato finale è "cosa non si deve fare per evitare che".


15-16/04/17, San Pellegrino in Alpe, Castelnuovo in Garfagnana, Carrefour, Partaccia.
Se avesse un nome, questa mini vacanza andrebbe intitolata “To lose la Track”.
Quante volte ho fatto questo giro, traversando l’Appennino Tosco-Emiliano, svalicando sulle selvagge e austere Alpi Apuane, incrociando i bianchi e marmorei passi che, una volta superate le gallerie, buttano l’orizzonte sul Mar Tirreno che splende dabbasso al riflesso del sole alto in cielo, e quante volte ne sono rimasto ammirato e incantato, stupito di come la natura continuasse a farsi bella per me e per noi.

Uno scorcio dell'Isola Santa, un luogo spettrale.
Per inciso, io avevo già scritto qui della Garfagnana, articolo che, non-si.sa-perché, è il mio più letto ogni epoca e ogni blog.


Più che altro, in quante diverse vite ho percorso queste strade e visitato questi luoghi, quante volte ho soggiornato nella dimora marittima di Berta, alla Partaccia: da solo, in coppia, in fasi di grande sbandamento, da ragazzino, da accoppiato, gli ultimi dell’anno, insieme agli amici, da sposato, da padre. Prima parlavo di “Domicili eletti”: sicuramente Marina di Massa è uno di questi. A volte ne ho perso traccia ma le impronte son rimaste stampate sulla sabbia, per chi le sa e le vuole cercare, e non è mai un caso che ci si ritorni anche ad intervalli irregolari. Giusto il tempo di riambientarsi, e poi è come se ci si fosse lasciati la notte prima, quasi che ogni pezzo del giardino ed ogni spigolo della casa rievocasse momenti di età ed epoche passate, derubricate ma non cancellate.

Ogni volta che vado a Partaccia, vorrei fare una foto con cui testimoniare a qualcun altro quanto sia bella casa di Berta, con le Apuane dietro, la torre di Marina davanti, le margherite nel prato e gli ulivi in giardino. 
Ogni volta che ci provo ne viene fuori una foto di merda ma che per me ha un peso specifico incalcolabile.

Direi ormai sette anni fa, in compagnia di alcune amiche e alcuni amici (chi ritrovati, chi rimasti e chi perduti) andammo a trovare Berta la seconda settimana di Agosto (mettere foto). Giancarlo, suo padre, ci cucinò i testaroli ed io, con il carico di birre che avevo in pancia fin dalla night of (tradotto: un caldo disarmante ed un hangover stellare), necessitavo di spogliarmi e mangiare a torso nudo. Essendo l’unico animato da tali sentimenti, mi trattenni fino a quando non vidi lo chef (nonché padrone di casa) avere la mia stessa idea.
“Oh, fortuna che ti sei tolto la maglia anche tu, Gianchi. Sai, ero un po’ in imbarazzo a mangiare a torso nudo a casa tua.”
La risposta:”Oh, Zeman, devi essere parecchio sbronzo perché tu ti sei spogliato dieci minuti fa ed io, vedendo te, ho fatto uguale perché se io fossi stato l’unico mi sarei vergognato.”
Game, set & match.
Fa strano, oggi, ritrovarmi qui nel giardino con una bambina. Non è come avere portato qualcun altro, un nuovo amico: è qualcos'altro, una vita che si ripete. Come ha detto Berta dopo aver fatto una foto a lei e all'Annina che giocavano insieme:"Zerta 2.0".
Considerando che "Zerta" è nato a Partaccia allora siam sempre lì: processi naturali, nothing more and nothing less.


17/04/17, Sant’Antonio. Pensieri (troppo) periferici.
Bisogna sempre mettere la data davanti ai propri appunti. È sorprendente scoprire quanti anni possano trascorrere da quando si trascrive un pensiero che sembra catalogato il mese scorso.


18/04/17, Spezzangeles. Conoscere le persone.
Il miglior modo per capire come ragionano le persone sul lavoro è parlar con loro d’altro, di un argomento che si ha in comune. Se c’è una parvenza di idem-sentire, bene; altrimenti sarà dura allineare pianeti che orbitano in galassie diverse.


19/04/17, Ubersetto. Interior intimo meo.
Finalmente ho trovato, con una botta di culo enorme, una Parrocchia in cui vien detta Messa alle 18.30. E, si sa, anche la più grande organizzazione non potrà mai essere sostituita da una botta di culo enorme. A volte vado a Messa alla mattina, a Maranello, alle 7.30. Tuttavia, da un po’ di tempo a questa parte, non sono più nelle condizioni fisiche e mentali adeguate per affrontare di prima mattina il gran-varietà religioso. Ho addosso le tensioni del lavoro che mi aspetta, la pressione della strada da percorrere, il fatto che debba cagare (che va bene il motto latino “defecatio matutina bona tam quam medicina”, però a me lo stimolo vien sempre nel preciso momento in cui serro la porta con le chiavi): insomma, ero alla ricerca di un orario alternativo ma non troppo invasivo, tipo le 18.30.
Solo che in nessun luogo evangelizzato del Distretto Ceramico sembrava ci fosse una Parrocchia in cui venisse detta Messa a quell’ora. 
Cercando altro trovo la chiesa di Ubersetto, sponda fioranese dell’unica frazione italiana rispondente a tre comuni diversi. Che va bene tutto ma con un Santuario meraviglioso, una parrocchia in paese ed una nella vicina Spezzangeles, vengono dette sì due Messe serali ma alla stessa ora? 
Ad ogni modo, quando avrò bisogno di confrontarmi con me stesso, raccogliere i pensieri, quando crederò di dover aprire ticket all’Altissimo, andrò lì, a soli cinque minuti da dove lavoro.
Ne “Le Confessioni” Sant’Agostino ha scritto:”Tu autem eras interior intimo meo et superior summo meo." Arrivederci e grazie.




Parentesi musicale o anche "back to days".
Qualcuno, in tempi non sospetti, ci scrisse una canzone:"...and as he faced the sun, he cast no shadow". Meraviglioso articolo di Mucchio su Richard Ashcroft, i Verve e Urban Hymns.



Il ns caro compagno Chicco era solito invadere lo spazio vitale mio e di Checco ripetendo la lezione di storia prima delle interrogazioni. In corrispondenza dell'uscita di quest'album umanamente e musicalmente paradigmatico, noi studiavamo la Rivoluzione Industriale e il fenomeno di inurbanesimo.
Lui mi disse, lo ripeto sempre ma fa sempre ridere:"Contestualmente assistiamo all'In-urbanhymns, ossia la gente andava nelle città inglesi ad ascoltare i Verve". Genio.


20/04/17, Maranello. “Stiamo ancora passando?”
Finché suonavo con ragazzi di dieci anni più giovani di me e io ne avevo cinque in meno di adesso, mi sembrava di essere ancora attaccato al treno, magari all’ultimo vagone, però c’ero e stavo ancora passando. Ora ho come l’impressione di essermi fermato in stazione. Guardo i newcomers, li guardo passare, vedo i loro vestiti, sento le loro parole: siamo passati, per lo meno, io sono passato di sicuro.


21/04/17, Carpi. Concerto degli Spartiti.
Siamo al Kalinka, vecchia Casa del Popolo. Come dice Santu:”Guardando i subnormali che sono qui dentro, capisco anche io com’è che le Case del Popolo non abbiano vinto”. Highlights, One Direction, D’Aguanno. Buonasera compagni. Si può ancora dire "compagni"? Per richieste spirituali le consiglio di rivolgersi ad un esperto. E se poi è la ragazza di quello là?


22/04/17, Sant'Antonio. Nottetempo.
Mao cantava:"Prima di addormentarmi mi vengono in mente le cose migliori". A me succede nel cuore della notte e ogni volta penso che di sicuro non mi dimenticherò dell'intuizione che ho avuto, che non vale la pena svegliarsi e appuntarselo sul blocco note del cellulare. Poi ogni tanto ci ripenso e lo faccio. Stanotte ho sognato di coniare un neologismo:"Pease", una contrazione tra "Peace" e "Ease", che vorrebbe dire "Semplificare il processo di pace". In più somiglia a "Please", per cui ha anche un carattere di richiesta, di favore e di supplica. Il fatto è che le parole non hanno padroni per cui, ammesso e non concesso, che questo termine non esista già e abbia un altro significato, spero che qualcuno legga questo articolo e ci si imbatta, e lo usi.


23/04/17, Ogni bagno del mondo. Pensieri di merda.
Sono abbastanza convinto che, al contrario di un quotidiano, la consultazione di uno smarthphone non sia propedeutica all'espletamento dei propri bisogni. È un'estensione del pensiero gucciniano del "Nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento". Leggere un giornale è qualcosa di distaccato e passivo, non penalizza altri sforzi: scorrere gli ultimi aggiornamenti facebook, whatsapp e instacaz richiede troppa attività cerebrale, che, inevitabilmente viene sottratta a quella fisica, più importante e fisiologica.


24/04/17, Maranello. Forza Panino.
Finalmente aperitivo, dopo qualche tempo e qualche appuntamento mancato, con Tommy.
Due riflessioni maturate dal sempre interessante chatting con l'amico di vecchia data che, purtroppo, incrocio sempre meno. La prima è che più dai tempo a una persona per fare una cosa e più questa ce ne metterà per farlo. La seconda, solo all'apparenza slegata dalla prima, è che l'ultima battuta di Eyes Wide Shut è la più grande legacy umana lasciataci da Stanley Kubrick.

Se ciò di cui parla Nicole Kidman è, all'inizio di ogni rapporto (ma anche di ogni esistenza), quasi un'ossessione (o per lo meno un obiettivo), con l'incedere della giovinezza diviene un gioco, con un età più consapevole si trasforma in abitudine, rischiando a volte di declinare ad impegno, ma ad una certa, quando il tempo scarseggia, ecco che diventa raro e come tale si impreziosisce. E quando ci si trova davanti a qualcosa che vale, è come se fosse una sorta d'arte: se ne gode ogni momento e si fa di tutto perché duri il più possibile.
Scrivere, viaggiare, ascoltare canzoni, ritrovarsi, un hobby basta-sia di qualsiasi altra natura sono importanti, aiutano a decomprimere ma non sono affatto l'unica cosa che conta: resta in auge, in tutta la sua semplicità, il rituale più antico e segreto del mondo. Di tanti processi naturali, questo è sicuramente il più insondabile, il più curioso e quello che non smette mai di essere divertente. 

In verità avrei voluto terminare di prendere appunti sul taccuino e, di conseguenza, sbobinarli solo voltata l'ultima pagina, ma credo che l'argomento su cui si è andati a parare sia esausto. È strano perché se i primi mesi dell'anno mi son sembrati piantati come un chiodo su una bara e quindi più lunghi e lenti da descrivere, la Primavera è partita a razzo. Come ha detto Santu:"Era febbraio l'ultima volta che ho guardato l'orologio. Quando l'ho riguardato erano le 8 di sera e c'era ancora luce". 

E poi c'è da dire una coscia, ossia che a Maggio succederanno un sacco di cose per cui è forse meglio giocare una partita alla volta senza mettere troppa carne al fuoco.
Già sono logorroico di mio, non c'è bisogno di allungare il brodo se la misura è colma.

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