Un'insolita Luna di Miele di venti giorni in giro per l'Europa con la Punto.
Per l'occasione due cari amici mi hanno regalato uno splendido diario di viaggio su cui vergare i miei appunti. Nell'attesa di capire cosa farne, ho cominciato a sbobinare tutto e ho deciso di pubblicare i resoconti giornalieri delle varie città sul blog, e di farlo con cadenza casuale e indefinibile. Insieme al diario c'era anche una bussola, al cui interno era riportata una frase:"Not all those who wander are lost". Se non altro come omaggio al presente della coppia di amici, ho valutato più volte di utilizzarla come titolo ai miei scritti, ma ha prevalso quello su cui m'ero intestardito fin da subito:"Transeuropa Express", a ricordo di un sacco di cose a me molto care e che con questo viaggio avrebbero finalmente trovato una loro profondità.
Nell'articolo che segue parlo della partenza e dell'arrivo a Parigi, concedendomi anche alcune digressioni riguardo la più intensa estate della mia vita, il matrimonio e Jean. Quello che rimane è cultura generale.
Venerdì 31/07/15 – Da Modena ad Aosta
Ascolto consigliato: Buon Viaggio (Share the Love) – Cesare Cremonini
Buon viaggio
Che sia un'andata o un ritorno
Che sia una vita o solo un giorno
Che sia per sempre o un secondo
L'incanto sarà godersi un po' la strada
Amore mio comunque vada
Fai le valigie e chiudi le luci di casa
Partiamo in netto ritardo rispetto alla tabella di marcia, sono quasi le otto di sera quando saremmo dovuti partire non appena usciti dal lavoro, alle sei e mezza massimo.
All’altezza di Parma il sole comincia a fare capolino e a tinteggiare di arancione il basso ed interminabile cielo padano. Riaffiorano nella mia mente ricordi lontanissimi, di quando, tanti anni fa, m’ero ritrovato di fronte allo stesso identico tramonto. Avrò avuto venticinque anni ed ero ancora all’Università: insieme ad alcune amiche ed alcuni amici eravamo venuti da queste parti, una sera d’estate proprio come quella di oggi, a vedere il concerto di un gruppo che, al tempo, seguivamo dappertutto, gli Afterhours.
Stranamente, e all’improvviso, la mia memoria si fa vivida nel recuperare un particolare che non pensavo assolutamente di avere conservato, uno dei tanti bagagli emozionali smarriti in una delle stazioni della mia giovinezza.
In quel mese di Luglio non c’era alcun tour che facesse seguito ad un album, si trattava di semplici concerti in giro per l’Italia in occasione di feste più o meno democratiche, festival o rassegne cui partecipavano varie band. Fu una serata bellissima, e lo fu perché gli Afterhours suonarono ad una Festa dell’Unità di un anonimo paese denuclearizzato della pianura parmense che, ovviamente, non poteva contenere tutta le gente che era accorsa per assistere al live.
Non avendo precisi vincoli commerciali legati all’uscita di un qualche album, la scaletta era del tutto nuova e ciò aveva permesso loro di sbizzarrirsi, recuperando vecchi pezzi di repertorio o interpretando canzoni mai presentate in altre occasioni. Aprirono quello show con un brano intitolato “L'Estate”, che io non avevo mai sentito suonare dal vivo. Pensai fosse la più adatta per quel contesto e per quell’atmosfera perché era una meravigliosa e spensierata notte di fine Luglio, eravamo in cinque, tra amiche e amici, ad una sagra di un paese emiliano per vedere uno dei nostri gruppi preferiti.
Bisognerebbe avere presente la tipica calma che hanno a notte fonda i freschi campi della ribollente pianura padana, laddove finisce qualche strada statale, qualcosa che non so descrivere meglio, perché sia davvero possibile cogliere il senso della di quell’atmosfera. Era esattamente così e a questo bisognava aggiungere il fatto che eravamo insieme, senza urgenze di alcun tipo, ad un insolito e straordinario concerto che suggellava la vigilia della nostra mezza estate. Inoltre, ultimo ma non ultimo, per quanto quella canzone avesse un che di malinconico e angosciante, tratti tipici dello stile e della melodia degli Afterhours, era carica di sentimento e incarnava benissimo lo spirito fugace della stagione più bella dell’anno.
È davvero curioso come funzioni la memoria. Non ho mai rievocato questo ricordo né m’è mai passato per la mente, eppure questo crepuscolo estivo lo ha riportato a galla, come se determinate connessioni si siano attivate solamente ora ed esclusivamente sotto l’influenza di vincoli esterni: un luogo ed un tempo precisi. “L'Estate” era il nome di quella canzone ed è estate adesso, una delle più intense che abbia mai vissuto e che sto continuando a vivere.
Ascolto consigliato: L'Estate - Afterhours
In un fulmineo ed inaspettato stream of cosciousness si fanno largo a spallate tutte le emozioni del matrimonio di due settimane fa. È come se tutti quei turbamenti e quelle eccitazioni prendessero ora una vaga forma, provassero a definirsi nella mia mente. E, guarda caso, alcune delle parole di “L'Estate”, la canzone, s’adattano perfettamente: ”Io e te non ci crediamo che è successo” e anche: ”La realtà che rientra proprio adesso”.
Sotto quel cappello potremmo esserci io, Buso o la Benny
Le birre bevute da solo in veranda mentre scrivevo agli amici vicini e lontani su whatsapp, divorato da un’ansia che non credevo potesse impossessarsi di me. Le mille sigarette fumate di sera -tutt’altra roba rispetto alle cattive abitudini che Neffa dice di avere al mattino- preso dall’agitazione del non potere controllare tutto o comunque non il meteo, rispetto cui rimanevo costantemente aggiornato da mio padre. La tratta Sant’Antonio – Miceno – Serra Parenti percorsa avanti e indietro un numero imprecisato di volte. L’Estense in Maggiolino con Mario. Cenare alla sagra perché il tempo che ci restava era giusto quello per uscire e ordinare due borlenghi e una coca. Il buffo buffet di Fonzi. Cato e la “vespata” con i miei ragazzi per raggiungere il Castello di Montecuccolo. Io con Luca. La frenesia. Max a officiare il rito. Berta e Sandro come testimoni. Momenti durati ore e ore durati momenti. Il Luglio più caldo di sempre. Wonderwall. Tender. Killing in the name of. Fantastico superfantastico. Non.Si.Va.A.Casa.
Il giorno dopo Max mi ha inviato un wozzap riportando una frase di Seneca: " Breve è la vita che viviamo veramente. Tutto il resto è tempo". Ha questa vi ha poi aggiunto:"E ieri abbiamo vissuto veramente".
Il giorno dopo Max mi ha inviato un wozzap riportando una frase di Seneca: " Breve è la vita che viviamo veramente. Tutto il resto è tempo". Ha questa vi ha poi aggiunto:"E ieri abbiamo vissuto veramente".
E poi un indefinibile stato di grazia. Essere il più vestito della festa ma non patire alcun caldo. Decidere di spogliarsi e tuffarsi in piscina senza considerare il fatto che non fossi l’ultimo degli invitati ma il principale protagonista dell’evento, quasi mi sentissi invincibile o come se avessi appena bevuto la pozione Felix felicis di Harry Potter. Non accorgersi se l’acqua fosse calda o fredda. Cercare solamente di riempirsi gli occhi e il cuore di tutta quella felicità che mi/ci circondava: un Maranello ft Pavullo never seen before sulle tavolate e in pista. E infine sapere che in tutto questo avevo molto più di una compagna o una moglie: una complice. Come avere due anime.
Quasi non ci crediamo che è successo ma, allo stesso tempo, la realtà sta rientrando proprio adesso.
Io l'avevo detto fin da subito che meno fossero state vestite le ragazze, più ragazzi avrebbero fatto il bagno in piscina.
Era un'equazione verificata fin da principio.
Era un'equazione verificata fin da principio.
Raggiunta la barriera di Milano precipitiamo nella notte e l’A4 diventa, per dirla alla Game of Thrones, dark and full of terrors. Non è più la comoda e larga Autostrada del Sole, non è più la strada dell’orto: le corsie da tre diventano due e spesso sono interrotte da lavori in corso. La caldara estiva fa sì che le opere di manutenzione vengano effettuate col fresco, quindi col buio, quand’anche il flusso di macchine è minore e i pericoli, sia per chi è all’opera sia per chi viaggia, si riducono.
Tuttavia io sono stanco morto, vengo da mesi ininterrotti di lavoro sfiancante cui vanno aggiunti la preparazione e lo svolgimento del matrimonio, tutte cose che hanno prosciugato ogni energia fisica e mentale. Ne va che faccio davvero fatica a tenere alta la soglia della concentrazione e a seguire la strada. I fasci di luce che provengono dai fari delle macchine che percorrono l’altra corsia si stagliano contro i bassissimi cavalcavia che incontro sulla mia, provocandomi allucinazioni che neanche Rust Cohle quando, in True Detective, vede stormi di uccelli che gli mostrano segni inequivocabili dei pericoli che sta correndo.
Sono sempre a credito con Rust Cohle: gli devo avanzare delle percentuali per l'impatto che ha avuto nella mia vita e sulle colonne di questo blog.
Fortunatamente un caffè doppio in autogrill interviene in mio soccorso, salvandomi, per l’ennesima volta, la vita.
Negli autogrill c'è sempre un motivo per sorridere e per preconizzare come "non andrà".
Oltrepassiamo il Canavese senza nemmeno accorgercene.
Ad essere sincero non saprei nulla di questa zona, non fosse che proprio da queste terre viene un ragazzo con cui ho stretto un’amicizia social-virtuale, e ne saprei ancora meno se non mi fossi ricordato che era di Ivrea la ragazza che, per un po’ di tempo, aveva frequentato un mio compagno di Liceo. Rammento che l’andava a trovare in occasione della "Battaglia delle arance", nient’altro.
Lasciamo il Piemonte ed entriamo in Valdaosta. C’è un buio pesto e, intravedendo le cime delle montagne, è facile intuire che sarebbe stato meglio attraversare queste strade di giorno, col sole e la luce, così da godersele e farsi ammaliare dal panorama, ma tant’è: le scadenze fissate da un tour in automobile sono brucianti e non è possibile programmare e, allo stesso tempo, pretendere di vedere ogni cosa nel suo momento di massimo splendore.
Ascolto consigliato: Elliptic - Vessels
Questa band trasmette un senso di pesantezza inenarrabile che s'avvicina molto a quello che provavo io durante il viaggio verso Aosta.
Entriamo ad Aosta, piove e fa freddo.
Dopo aver confuso una caserma dei carabinieri con il nostro hotel, individuiamo il nostro alloggio, Le Chevalier Blanc, e, finalmente, dopo quatto estenuanti ore di viaggio, andiamo in branda. Non c’è quasi nulla da segnalare, non fosse che siamo davvero provati dalla settimana di lavoro e dalla strada percorsa, e non siamo più né così lucidi né troppo reattivi.
Dimentichiamo una bottiglietta d’acqua alla reception e il portiere notturno, un ragazzo poco più giovane di noi, ci raggiunge di corsa proprio mentre stiamo per salire con l’ascensore al primo piano. Come in uno dei più classici cliché da film dell’orrore, infila una gamba tra le ante che si stanno chiudendo e le spalanca con le mani. Prendiamo una paura che mai, siamo terrorizzati, temiamo quasi che ci voglia scuoiare. Già ho avuto le allucinazioni lungo la strada, piove, è inspiegabilmente freddo: manca solo che ci si metta anche questo ragazzino psicopatico.
In realtà vuole solo renderci quello che avevamo lasciato sul banco della hall e augurarci la buonanotte.
La stanchezza gioca davvero brutti scherzi.
Sabato 01/08/15 – Da Aosta a Parigi
Ascolto consigliato: Let it happen - Tame Impala
Ho paura che questi siano abbastanza uomini-sessuali.
Non che io conosca così bene i piemontesi da farne pietra di paragone, ma gli aostani me ne sembrano un’estrema coniugazione, solamente declinata un po’ più Nord. Nonostante il bilinguismo presente sui cartelli e nella tradizione culturale, sono italiani a tutti gli effetti, molto più, ad esempio, di quanto non lo siano popolazioni con caratteristiche simili, e penso agli alto-atesini. Sembrano affabili e disponibili, tuttavia il loro essere alpini in ogni modo e maniera li rende, molto semplicemente, diversi dagli altri, così come dagli stessi cugini piemontesi. In una parola sola: unici. È che sono pochi, son lontani, isolati e non si fa loro caso, ma è davvero così: merce umana rara, o così sembra.
Teatro romano d'Aosta
Aosta conferma quello che vale per qualsiasi altro capoluogo (e a volte non necessariamente tale) italiano, ossia che è veramente difficile trovarne uno che non si possa ammirare, cui non si riesca a voler bene.
La città è contenuta ma ricca di storia, è un fazzoletto di vicoli, piazze e monumenti che si possono visitare in una mattina. Nondimeno però non manca di sorprendere per la sua grazia e per la curata conservazione di meraviglie nascoste ma non dimenticate, tanto care agli abitanti della Valle.
Criptoportico forense
Dopo un frugale pranzo a base di tipicità locali ha inizio il viaggio vero e proprio.
Ci dirigiamo verso il traforo del Monte Bianco.
In prossimità del tunnel c’è un traffico bestiale e dobbiamo scontare una fila di un’ora e un quarto prima di passare attraverso la montagna. Per farlo, i bravi casellanti italiani ci chiedono quaranta euro: avremmo poi scoperto che, per attraversare tutta la Francia, avremmo speso di meno. Vabbè.
Di per sé il varco non fa paura, potrebbe essere una galleria come un’altra, ma la consapevolezza d’essere nella pancia della più elevata delle Alpi mette in soggezione. Ci sono sole due corsie, una che va ed una che viene, ed occorre mantenere la rigorosa distanza di sicurezza segnalata dai catarifrangenti posizionati ogni centocinquanta metri. Sono solo dieci minuti ma, quando finalmente usciamo e tocchiamo il suolo francese, potrebbe essere trascorsa un’eternità.
Dalla parte francese del confine la situazione è ancora peggiore, la colonna è interminabile, percorriamo almeno una decina di chilometri ed ogni automobile che incontriamo sul lato opposto è piantata sulla strada come un chiodo su una bara.
Piove abbastanza forte ma, una volta imboccata la giusta direzione, l’autostrada che chiama Parigi a cinquecentonovantacinque chilometri è sgombra: meglio così.
Così per centinaia di chilometri
Al netto del traffico intorno al Monte Bianco e di qualche breve coda in prossimità degli svincoli che portano alle uscite per Lione, è tutta campagna: quasi cinquecento chilometri di campi e nemmeno tutti coltivati. Le mucche al pascolo o le pale eoliche sono le sole cose che si scorgono e sono in numero decisamente maggiore rispetto alle macchine che percorrono l’autostrada. Ogni tanto, ma in lontananza, si avvista una qualche fattoria e il mio pensiero va a Monsieur LaPadite di Inglorious Basterds, al suo latte e alle sue bellissime tre figlie. Rimango stupito quando scruto il castello di un borgo medievale, adagiato su un colle distante qualche decina di chilometri: sembra essere l’unico avamposto di civiltà visibile a occhio nudo, se non si considerano, ovviamente, gli autogrill.
Questo è un territorio imparagonabile al nostro. Se si prova ad individuare un equivalente italiano, viene in mente la pianura padana sebbene con le dovute proporzioni: è una cosa completamente diversa. Al confronto la “Padania” è una grande città e suonano ineccepibilmente corrette le parole di Pier Vittorio Tondelli, quando dice che siamo gente che lavora a Bologna, dorme a Modena e va a ballare a Rimini. È così: per noi la pianura è allo stesso tempo terra e città, la percepiamo come qualcosa di indistinto, mentre in Francia le due realtà sono qualcosa di nitidamente separato l’una dall’altra.
Ma come/dove siamo?
Mi avevano detto che Parigi sarebbe comparsa all’improvviso, quasi dal niente.
Sono ormai le otto di sera ma, sebbene il navigatore ci dica che manca poco più di un’ora, della Capitale francese ancora nulla ed è già il secondo autogrill in cui ci fermiamo per sostare e rifocillarci. Ripartiamo e pochi chilometri dopo la strada degrada verso il basso, come se fino a quel momento fossimo stati cinquanta o cento metri ad un livello più alto; poi, inaspettatamente, una vastità di luci, è quasi notte ma son così tante e così intense che rischiarano il cielo a giorno.
Ici c’est Paris.
Percorsi comunque altri trenta chilometri, veniamo accolti da una città immensa, ancora pienamente viva nonostante sia notte. Me ne faccio meraviglia ma in realtà è del tutto normale: siamo in una delle più grandi metropoli europee, è sabato sera e non ci si può certo aspettare che una città così non sia ancora in fermento.
C’è un traffico selvaggio, non ho mai visto niente del genere e saranno quasi le dieci. I parigini intendono gli svincoli, i semafori e le rotonde a modo loro: ne va che raggiungere il nostro hotel risulta più difficile del tentativo di penetrare in un alcazar inviolabile.
Tuttavia, dopo un incommensurabile numero di imprecazioni e di rischi d’incidente, individuiamo il nostro albergo, il Mercure, in un quartiere chiamato Place d’Italie. Stando alle recensioni si tratta di un arrondissement municipale poco frequentato ma tutto da scoprire, tra café, bistrot, brasserie, panetterie, mercatini rionali e i grattacieli che si elevano intorno al centro commerciale su cui fa perno l’intera zona. Sempre riferendosi ai commenti trovati in rete, in questo circondario è presente anche la più grande Chinatown d’Europa e, esclusa quella, è un sobborgo per classi medie.
Ascolto consigliato: Mohammed - The Dandy Warhols
Per la serie "Perle ai porci".
Purtroppo però dopo aver fatto il check-in e aver messo il naso fuori dal nostro alloggio, le impressioni sono leggermente differenti rispetto a quelle che ci si poteva attendere. Diciamo che non erano queste le emozioni che ci saremmo aspettati dopo il primo ciak. Il quartiere è molto scuro, lo è anche nella zona dei grattacieli e del centro commerciale, la percentuale di immigrati è molto alta e, un po’ dappertutto, ci sono barboni all’angolo che cercano riparo per la notte. Sarà vederlo di notte, ma così, più che caratteristico, sembra tetro e pericoloso.
Donna Ilenia, molto più prosaicamente, sentenzia che un posto che a Parigi si chiama Place d’Italie non può che essere una merda. E tutto questo viene amplificato dal fatto che, seduti in un cafè, ci portano due birre medie alla modica cifra di diciotto euro, cosa che si somma alle cause di forza peggiore che ci stanno già indisponendo verso Parigi.
La particolarità dei bistrot parigini è che, proprio come si vede nei film, le sedie e i tavoli sono rivolti al passeggio, per cui lo sguardo e l’attenzione si soffermano spesso su quello che accade nella strada dinnanzi e lungo i viali. Davanti a noi i camerieri, che dividono il loro tempo tra il ritirare le poche e misere (di numero ma non di importo) ordinazioni, e prendersi lunghe pause per fumare senza soluzione di continuità, stanno cercando di smarrire un omone di colore, sbronzo come me in uno dei miei venerdì sera più ruggenti ed in evidente stato confusionale, che balla canzoni suonate esclusivamente nella sua testa, e raccoglie da terra le sigarette spente male per bruciarsele fino al filtro. È argento vivo, è esplosivo, inarrestabile, in chiaro fuorigioco mentale: fa veramente ridere e non riesco a non filmarlo di nascosto, evitando che il suo sguardo mezzo spento ma interamente torvo intercetti il mio obiettivo.
Sullo sfondo il fenomeno vero
Poco oltre, lungo la strada, da un camion vengono scaricate le merci che una serie di ragazzi di presumibile origine maghrebina affastella al di sotto di una struttura dove l’indomani mattina si svolgerà il mercato. I rumori, le lingue che si incrociano tra francese e arabo, le stesse facce sono tutte espressione di una grande vitalità, quella di chi deve saltarci fuori e mettere a terra i cavalli. Questi ragazzi rappresentano le seconde linee della nuova Francia, sangue nuovo, linfa vitale, il primo lampante esempio che mi si para davanti di quanto l’Europa stia attraversando una profonda fase di mutamento sociale ed etnico.
Place d'Italie
Domani ci aspetta una giornata bella brensa, per cui lasciamo il cafè e ci appropinquiamo all’hotel per tornare sotto coperta. Lungo la via facciamo caso ad un locale dal quale proviene musica punk. Diamo una sbirciata dentro e l’unica cosa che riusciamo a intravedere è il bassista della band, un ragazzo bianco a torso nudo con folti capelli ricci spiritati: sembra un novello Sid Viciuos. Al di là dello stile molto Londra anni ’70, fa effetto che sia l’unico ragazzo non di colore presente in sala, a riprova di quanto questo sia un quartiere multietnico, per lo meno di notte.
Proseguiamo e ci imbattiamo nel classico shop 24/7 gestito da pakistani. Tutto il mondo è paese: come nella nostra piccola Modena, anche qui gli immigrati asiatici sbarcano il lunario vendendo bibite e alimentari a prezzi nettamente più concorrenziali rispetto a quelli di tutti gli altri supermercati. Prendiamo qualche birra e l’acqua che da queste parti costa più dell’oro.
Il contesto mi riporta alla mente certe serate sbandate in Via Carteria e alla Scintilla a Modena, con Jean. E mi fa piacere ricordarlo perché da quando se n’è andato non sono mai riuscito a farlo con sereno distacco. A lui una via come questa sarebbe piaciuta: avrebbe fatto la spola tra il locale e il paki, avrebbe organizzato eventi, reading, concerti.
Nietzsche diceva che un artista non può avere altra patria che Parigi. Sì, penso proprio che questa città, questo fervore etnico, questa confusione culturale a Jean, che un artista lo è stato per davvero, sarebbero piaciuti.
Una cicatrice dei tempi,
non c'è nessun da sempre da tenere a mente,
non c'è nessun per sempre da custodire avidamente.
Continua...