Brace (Consorzio Suonatori Indipendenti - Tabula Rasa Elettrificata)

Correva l’anno 1997, era pressappoco ottobre.
Uscì T.R.E. e finì direttamente al primo posto di Hitlist Italia su MTV.
Ricordo chiaramente le parole di Enrico Silvestrin, il VJ del tempo:”Questo è un giorno da segnare sul calendario, i CSI sono al primo posto della classifica italiana”. Aveva ragione.
Strano a dirsi: mi facevano schifo. Ricordo di aver visto il videoclpi di “Forma e sostanza” e aver pensato:”Ma chi è ‘sto spostato? Ma come cazzo son messi, questi? Ma chi è che può ascoltare di ‘sta merda?”
Mi avevano già spaccato la testa. Non erano belli, ma avevano un fascino irresistibile. E suonavano da Dio.
Poi, un giorno, a Mediaworld, non riuscii a non comperarne il disco, fu più forte di me.
Iniziai dalla fine, con Noi non ci saremo Vol.1 e prosegui con In quiete, acquistato in società con Checco.
Fu una splendida rincorsa verso qualcosa che non c’era più.
C’ero arrivato tardi, ma per fortuna c’ero arrivato.



Anima fiammeggiante zoppica,
zoppica brace, non sa se ce la fa.

E’ come se Giovanni Lindo stesse parlando di qualcosa che continua ad ardere, che continua a vivere, ha ancora un’anima che brucia, ma è prossimo alla fine, non sta in piedi, non ne ha più.
A volte si leggono parole delle quali ci sfugge completamente il significato, sembrano messe lì a casaccio. Suonano bene, fine. Poi ci si accorge che invece ce l’hanno, e profondo, ma così profondo che sono quelle stesse parole a nascondersi e a nascondere quello che significano.
Oltre a questo come le dice, come le pronuncia, come le intercala respirando.
Scorre poesia (come direbbe il Moro), poesia pura: non vale. E non è poesia solo per i due motivi di cui sopra, che già di per loro basterebbero, lo è anche perché Giovanni Lindo sta parlando di sé stesso, e lo fa inconsciamente, perché solo nella sincerità più incontrollata ci si riconosce per quello che si è e si ha il presagio di cosa sarà.



Appare la bellezza,
mai assillante né oziosa,
languida quando è ora,
e forte, lieve, austera.
L’aria serena ma di sostanza sferzante

Durante il concerto a La Pietra, Lucagiblèin, che non li aveva mai sentiti, mi chiese cosa volesse dire questo verso. Al tempo non seppi spiegare ma iniziai a pensarci. E dire che ero nel posto giusto per afferrare il concetto al volo, ma vabbé, essere al posto giusto nel momento giusto a volte non è sufficiente: bisogna anche accorgersene.

Immagino di essere in montagna in pieno inverno.
L’aria è gelida e il cielo sereno è di un blu terso come solo a Gennaio riesce ad essere, la luce accecante del sole è amplificata dal candore della neve.
Forse è proprio lì che appare l’incanto.
Non è assillante perché è una bellezza tranquilla, non è oziosa perché è quasi al massimo di ogni sua possibile manifestazione esteriore. Può essere languida, ma non è quello il caso.
E’ forte (è la montagna), è delicata (è la neve), è rigorosa (è l’inverno).
E poi provo a respirare e mi si gelano i polmoni: di sostanza sferzante.
Non so, forse vuol dire questo. Forse no.

Dello stesso disco facevano parte Unità di produzione, Forma e sostanza, Ongii, Gobi, Bolormaa, Matrilineare e M’importa ‘na sega. Accade e Vicini erano le più brutte del lotto. Ci si rende davvero conto che Silvestrin non aveva sbagliato una parola del suo commento e quel giorno andava segnato sul calendario non solo perché una cosa del genere non sarebbe mai più successa, ma anche perché era uscito un album che, se perfetto non era, ci andava molto, ma molto a teso.

Che cos'è il genio?


Questo pub non è mai stato bello.
Era brutto quando avevo 15 anni e, nonostante cambi di gestione, continua ad esserlo ora che ne son passati altrettanti.
Oltretutto è in un quartiere loschissimo che conosci bene solo se lo frequenti abitualmente, e lo frequenti abitualmente solo se ci lavori, e se ci lavori vuole dire che c’è chi nella vita ha avuto più fortuna di te.
Suonano alcuni nostri amici, andiamo là per vederli.
E’ un sabato anomalo, come anomalo è il nostro terzetto.
La formazione è composta da me, Dom e il giovanissimo Cavva.

Tra il cortile e l’ingresso c’è un antro che ripara i fumatori quando è inverno o quando piove. C’è un divanetto, mi ci siedo e fumo una sigaretta. Cerco il portacenere, è sul tavolo di alluminio davanti a me. Come lo prendo in mano mi accorgo di un pacchetto di Marlboro appoggiato lì a fianco. E’ semiaperto. Sembra che dentro ci siano ancora alcune sigarette. Penso che sia impossibile, tutto intorno non c’è nessuno, sono solo a fumare in quell’antro, il pacchetto non può essere pieno. Immagino che sia il tossico di turno che dopo averle mozzate per farcirne altre più speciali, abbia lasciato i cadaveri dentro al pacchetto.
Finisco di fumare e ripongo il posacenere sul tavolino. Involontariamente lo urto contro il pacchetto che si apre ulteriormente, di quel poco che mi permette di vedere che è ancora praticamente pieno, ne mancheranno due o tre, a spaccare il mondo.

Cazzo.
E’ un pacchetto di Marlboro rosse, paglie pregiate, e io sto finendo le mie. Oltretutto per la quarta volta ho smarrito la tessera sanitaria e se prima di andare a casa finisco le Winston sono ufficialmente nella merda. Quel pacchetto mi fa gola.
Tuttavia rubare non si può.

Sì, però io sto finendo le mie.
Sì, però le volte che io ho dimenticato pacchetti qua e là non ne ho mai trovati due o tre a rimborso della mia disattenzione.
Vaffanculo, me le fotto e tanti saluti.

No, anzi, faccio così. Torno dentro, aspetto cinque minuti, esco di nuovo, se sono ancora lì me le prendo. Mi sembra un ragionamento fatto con usta. Se tra cinque minuti nessuno le ha toccate, e se quei cinque minuti li sommo ai dieci in cui son stato fuori, significa che il proprietario del pacchetto è andato via o le ha date per perse.

Rientro, spiego la situazione a Cavani.
Anche lui è della mia stessa idea.
Passano cinque minuti, usciamo, il pacchetto è ancora lì.
Cavva è molto giovane, è già uno sbandato, ma è pur sempre giovane, e il locale è veramente losco, lo vedo intimorito nel commettere reato.
“Aspettiamo altri cinque minuti, Zé”.
Torniamo dentro, spieghiamo la situazione a Dom e decidiamo di giocare d’attesa.
Intanto ci godiamo la fauna del posto, assolutamente fuori dalle grazie dell’ultimo di tutti gli Dei.

  • C’è un quarantenne riccioluto che gira per il locale con un cappello da cowboy e una camicia bianca che sotto quelle luci risulta fosforescente. Importuna due categorie di clienti: le minorenni e il clan di calabresi bassi, tozzi e dalle spalle strette che s’aggirano per la pista con fare molto più che sospetto. Mi viene in mente “A prova di morte” di Tarantino, mi ricorda Kurt Russell.Lo so io. ‘sto spostato non ha bevuto proprio niente, fa sol finta d’essere patocco, tra un po’ si porta a casa una monella e sol Dio sa quel che succederà. Schifoso.
  • Ci sono i ragazzini che hanno suonato prima dei nostri amici. Sono così carichi che ci provano con ragazze che hanno dieci anni più di loro. Cerco di entrare nella loro testa. Non è che se son meno alte di voi allora son più giovani e siete autorizzati a lanciarvi in approcci disperati. Portate rispetto per queste giovani matrone che di vita ne hanno vista più di voi, mentre voi tra un quarto d’ora massimo sarete in bagno a sgattare perché per ballare da soli in mezzo a una mattonella -come state facendo voi- bisogna essere degli idoli o bisogna essere duri da radere
  • Ci sono famiglie con tanto di figliolanza al seguito. Una scena imbarazzante. Questi poveri bambini la cui infanzia verrà distrutta dalla visione di questo locale e di questa gentaglia mi fanno tenerezza. Con quali valori potranno mai crescere se non quelli della criminalità clandestina?
  • C'è un tizio vestito da Ispettore Gadget con tanto di gabardine grigio che se ne esce da locale in tutta fretta, chissà cos'ha da nascondere.
  • C’è un portoricano. No, forse portoricano non è, ma è strano forte. Faccia smunta, carnagione scura, capello lungo e sciolto, unto. Indossa abiti sportivi, sembra che sia uscito direttamente dalla pagina casual del catalogo primavera/estate 1997 di Postalmarket. La risposta etero-caraibica a Mel C, la Sporty-Spice. Non ha nemmeno la giacca anche se fuori c’è freddo, ed è solo. No, non ci credo che sia solo, è tutta una montatura. ‘sto qua fa coppia fissa con il sosia di Kurt Russel, gli fa da palo. Il portoricano qui dentro non c’entra proprio un cazzo, ce lo ha portato Kurt perché qualcuno depisti l’attenzione da lui.
  • C’è un vecchietto brizzolato con la camicia sbottonata. Avrà 60 anni, aspetta solo che abbia termine l’esibizione live della band per poi buttarsi sopra al primo tavolo e recitare la parte del più anziano cubista del Comprensorio Ceramico. Che pena che mi fa. Andrà avanti a chalis, sarà senza famiglia e se ne ha una non voglio pensare a come possa essere messa. Bene che gli possa andare, a tarda notte andrà a travestiti, ma proprio bene che gli possa andare.
  • Infine i gestori. Sono in 7 dietro al banco. Troppo facile capire come è andata. E’ una famiglia del Sud ad avere rilevato l’attività e ci hanno messo tutta l’allegra brigata: figlio caposala, figlia a far di conto, cugina a servire, zia a far tutto e far niente, zio a spinare, papà a controllare che nessuno distrugga il locale, una sassolese a organizzare tutto perché qualcuno che parli correntemente italiano può far comodo, e mammà a casa che qualcuno bisogna pur che lavi e stiri per la manovalanza.
Ma dove cazzo sono capitato? L’unica cosa che manca qui dentro sono le troie.

“Da come siamo vestiti io e te, a noi probabilmente ci hanno scambiato per due agenti in borghese, Zé”.
Forse ha ragione Dom. Chissà che idea si son fatti loro di noi. In fondo come questa gente è strana per me, io devo per forza essere strano per loro, siamo troppo diversi tra noi. Staranno davvero pensando che siamo della Digos. Dom è cattivissimo, mentre io mi presento con un capello rasato, una giacchettina di pelle nera, lo sguardo attento, e un foulard casual da vero infiltrato.
Un agente della Digos nostrano e ben vestito, ma pur sempre uno sbirro. Mi convinco che se andassi da un cliente qualsiasi ed esibissi velocemente la mia carta d’identità dicendo:”Digos, favorisca i documenti”, i casi sarebbero due: o l’immediata esecuzione dell’ordine senza nemmeno accertarsi che io abbia mostrato un distintivo vero e proprio, o la fuga a gambe levate del cliente stesso.
Fatto sta che se ai loro occhi passo per uno della Digos, forse l’impressione che io ho di loro è -a ben guardare- migliore di quella che loro hanno di me.

Sono passati cinque minuti. E’ ora di controllare se le sigarette che ho mirato sono ancora lì. Usciamo. Sì, sono ancora lì. Ci guardiamo con circospezione e glie ne facciamo su 2 pronti via.
Ci sediamo sul divano a gustarci il furto. Ora mi vendico, dannata Maura Pacifico, lo so che quella volta, in quarta Liceo, che lasciai le sigarette sotto il banco e trovai solo il pacchetto vuoto eri stata tu, l’ho sempre saputo. Adesso so anche io come è fumare con il furto, maledetta.
Nessun possibile proprietario si fa avanti.
Nessuno ci rimprovera.
Nessuno ci minaccia in lingue incomprensibili.
Torniamo dentro, raccontiamo del fatto ad una nostra amica.
Usciamo un’altra volta, ne favoriamo una anche a lei.

Ormai è passata quasi un’ora da quando stiamo giocando a “incula le paglie al fesso”.
S’avvicina il portoricano, parla con Dom.
“Questo è il mio pacchetto. Me lo sono dimenticato qui. Non credevo di ritrovarlo pieno. Non credevo proprio di ritrovarlo”. Dom, per non sapere né leggere né scrivere, dice che non sa niente, che lui non fuma. Cavva è dietro al portoricano, che portoricano non è, sarà un rumeno lampadato, e ride, attento che lo zingaro non lo veda. Io ascolto tutto con finto disinteresse, ma un po’ mi cago sotto.
Questo adesso ci ammazza.
E’ impossibile che non ci abbia visto.
Le volte che siamo usciti era fuori dall’antro con Kurt, a parlare, deve averci visto per forza.
Pace, non ci ha detto niente.
Ma del resto -scemo io- non gli conviene attaccare briga con due della Digos.

“Che cos’è il genio? E’ fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione.”



“Scusa, non è che me ne daresti una che sono rimasto senza?”

Finito il concerto siamo scappati. Senza arrestare nessuno.
Stavano passando “Bad Romance” (nomen omen) di Lady Gaga, la più degna conclusione di una serata così.
Il vecchio brizzolato stava ballando sul tavolo. Fossi stato ubriaco lo avrei raggiunto in postazione e lo avrei mandato via infartuato, senza alcuna pietà di censo o di anzianità. Da bariago i cubi sono tutti miei. Li posso lasciare giusto a Berta, ma sabato ero sobrio, non avevo istinti di auto-indecenza.
Il portoricano stava fumando le sue Marlboro, a breve distanza dal compagno riccioluto. Chissà dove è stato in quell’ora in cui io ho fatto la punta alla sue sigarette, chissà, sarebbe curioso saperlo.
I poveri bimbini erano ancora svegli e probabilmente non cresceranno mai se non nell’illegalità.
I ragazzini della band, dopo aver preso dei “vaffanculo, cresci!” dalle donne del locale, ci stavano provando come disperati con le rispettive pari età, non sapendo che gareggiavano solamente per il secondo posto dato che quella bestia di Kurt era ancora in giro.
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