Spark + Preludio


SPARK+PRELUDIO from Domenico Guidetti on Vimeo.
Perché non ne ho mai parlato abbastanza.
Una delle più belle esperienze della mia vita racchiusa in 25 minuti.
Qui un'allegra documentazione delle riprese.

Amen

A Chicco, perché mi manca da matti scornarmi con te, stronzo.

Che io, da tempi non sospetti, sia il più grande detrattore italiano di Luciano Ligabue, è cosa nota, famosa e che mi contraddistingue.
Che io, fin da quando è uscito nelle sale cinematografiche, sia fan di questo film è altrettanto risaputo.
Le due cose non s’azzeccano, lo so. Cosa ci volete fare, del resto sono da sempre convinto che le persone più contraddittorie siano anche le più sincere.
Sta di fatto che questa scena è strepitosa, punto e a capo.



Ma non è bella perché è quella che dà il la al più famoso “Credo” di Freccia, è bella perché è tristemente colma di verità, trabocca di realtà, è -come direbbe una mia giovane amica- brensa (cit. Ensy).
Freccia e Boris sono due facce della stessa medaglia: illusioni che riempiono vuoti, e pieni di verità che distruggono le illusioni stesse. Gli amici al tavolo sono spettatori, spettatori così umili che per me schierarsi con Freccia o con Boris diventa un obbligo, un dovere morale verso me stesso.
Ligabue non ha sbagliato niente in questo film, NIENTE. E soprattutto non ha sbagliato niente in queste due scene.
Freccia, prima di recitare il suo credo si limita a rispondere a Boris che è “un po’ stronzo”. Attenzione: non gli parla contro, non lo aggredisce, non lo manda a fanculo.
E’ quanto di più carino possa rivolgergli, specie dopo le reazioni degli altri amici.
E’ quanto di più simpatico e distaccato possa replicare dato che sarà l’unico a dire in cosa crede veramente lui.
E’ come dirgli “lo sai tu, lo so io, ma loro no. E magari per loro era meglio non saperlo. Perché sei stato così spietato da spiattellargli in faccia quello che loro, per fortuna o forse per sfortuna, non vedono?”
Il monologo di Freccia è una conseguenza, è cercare di ristabilire l’asticella dell’equilibrio del vivere che Boris ha spostato troppo verso il cinismo. Peccato che si trasformi nella solita, ma non per questo banale, morale cristiana alla Tolkien del “chi dà speranza agli altri difficilmente ne tiene per sé”.

Ognuno di noi può costruirsi “credo” ad hoc, sostituendo uno via l’altro gli eroi di Freccia, sostituendo Bonimba con Kakà o Keith Richards con Jonathan Greenwood (rimane la Telecaster, ndr). Non solo io me ne sono bellamente rotto il cazzo così come mi sono rotto il cazzo dell’Indie Rock, ma è anche mancanza di fantasia, pochezza, velleità di stare bene, di credere perché credere non costa niente e costa ancora meno riciclare le idee degli altri. E’ raccontarsela e cantarsela da soli.

Quando hai 17 anni il discorso di Freccia è quanto di meglio si sia mai sentito pronunciare in emiliano dai tempi del Compagno Brusco che dopo essersi inciampato dice a Don Camillo “Sono scapuzzato”.

Quando invece ne hai 28, e tre quarti delle previsioni di Boris si stanno avverando, non vale più: ci si sente quasi patetici ad avere ancora degli idoli e baratteresti volentieri “il rock'n'roll, qualche amichetta, il calcio” con Ilaria, i pesci gatto o che cazzo ne so.

I “quelli come me” che a 17 anni sono d’accordo con Tito nel mandare a fanculo Boris, a 28 anni s’ingastriscono molto meno ad ascoltarlo e purtroppo fanno la stessa faccia di Iena che sa già che, oltre a tutti i flash forward dell’antipatico di turno, qualcuno di fidato gli piomberà pure la ragazza. Bene che gli vada, gli succederà solo quello. Paradossalmente a Iena andrà di lusso. Alla fine della fiera lui sembra felice nonostante tutti i nonostante. Cammina sotto i portici, abbracciato alla sua donna. Come finale più dolce che amaro non è male.

La stessa replica di Tito che rimette a Boris come sia facile dire agli altri come dovrebbero vivere o che quelli che critica siano tutti, nel bene o nel male, personaggi che hanno scelto come stare al mondo, è debole, troppo debole. Meglio stare con Boris o coi matti di paese? Se vinco a pari o dispari prendo Boris, voi tenetevi pure i matti che son più belli da vedere che altro (lo dico con rispetto e purtroppo con cognizione di causa).

Il discorso è che forse bisognerebbe stare a media via tra le rovesciate di Bonimba, i riff di Keith Richards eccetera, e lo Zodiac per le gite sul Po’, i tortelloni la Vigilia e Ilaria. Non si sbaglierebbe di molto.
Del resto capita anche ai migliori di pareggiare.

De vulgari eloquentia

Premessa inutile.
Da piccolissimo, durante un pranzo di quelli importanti, me ne uscii con uno sfondone dialettale. Venni rimbrottato da mia madre che mi urlò di non parlare in dialetto, di non usarlo, di non usarlo in casa, fuori di casa, con persone che non conoscevo e che dovevo rispettare.
Avrò avuto 6 anni.
A dire la verità risero tutti quel giorno, solo mia madre non rise.
Resta che non usai mai più il dialetto, nemmeno con gli amici, nemmeno con i membri della mia famiglia che ignoravano l'antipatia di mia madre verso la nostra lingua "volgare".

Poi un giorno, sempre a pranzo, durante un battibecco furioso con mio padre gli risposi malissimo. Gli risposi, però, in dialetto. Mio padre cambiò umore, non gli importava essersi beccato i più brutti cancheri con tanto di contorno folkloristico dall'unico figlio che aveva, si mise a ridere e disse:"Mi piace quando parli in dialetto".

Da allora lo alterno all'italiano. A lavorare parlo praticamente solo in dialetto.

Scena.
Qualche tempo fa ho chiesto a mio padre come si dicesse una cosa che non avevo mai sentito pronunciare. Il passato remoto di dire, terza persona singolare, "lui disse".
Z: Zeman; D: Domine.

Z: Pà, come si dice "disse" in dialetto?
D: Chi?
Z: "Disse", Pà, "disse". Lui disse.
D: Le-lò al dis.
Z: Non "dice", "disse"!
D: Aaaaaaaah! Adesa a-i-ho capì, a-i-ho capì.
D: Le-lò al giva.
Z: No, quello è "lui diceva"
D: Allora: le-lò a-hal det.
Z: No, quello è passato prossimo, a me serve il passato remoto.
D: Chi?
Z: "Disse", voglio sapere "disse".
D: Sè bein, e mè s-a-t'ho-i-a-det?
Z: Mi hai detto il dialetto di "Ha detto".
D: T'et ghet ragiaun.
Z: ...
D: Le-lò a l'iva det
Z: Eh no. Questo è il trapassato prossimo.
D: Scolta ve'. Sa vot c'at dega?
Z: "Disse".
D: No. Non esiste in dialetto.

Z: E' impossibile. E' lo stesso tempo di "Fui". Come dici "Fui" in dialetto?
D: Non si dice. Non si dice quasi mai.
Z: Però si dice!

Dopo aver pensato un po', riprende.
D: Set cum as dis "disse"?
Z: Eh?
D: Le-lò a l'iva det!
Z: L'hai già detto, ma non è quello.

E poi pura accademia.
Alzando la mano col palmo rivolto all'indietro e muovendola più volte dietro all'orecchio, come a richiamare col gesto il tempo remoto, sentenzia: "Le-lò a l'iva det".
Non ce l'ho fatta a non ridergli addosso.
Fantastico.
Per la cronaca, dopo un'altra mezzora buona è riuscito a dirmelo.
Lui disse: le-lò al d'gé.
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